di Silvia Casagrande
[L’]abito, nella pittura, è parte integrante della figura. Il vestito dipinto sul personaggio lo completa e lo interpreta: è lo spirito della sua eleganza, l’espressione della sua raffinatezza. L’artista, a partire dal Quattrocento, ritrae la realtà che lo circonda, la realtà che vede e la gente vestita al modo che gli è familiare, per le strade della sua città o nelle sale dei palazzi dove è chiamato a dipingere. Rappresenta la vita a sé contemporanea come contorno a quello che è il centro del suo universo: l’uomo in tutti i suoi aspetti. Nella pittura aulica, come in quella sacra, il costume diventa la verità e l’attualità del soggetto così come si presentano all’artista.
E proprio osservando il modificarsi della foggia dell’abito è possibile intuire l’alternarsi, nell’opera d’arte, di epoche e di stili. Il ricco gotico fiorito, per esempio, pone la sua impronta su tutte le manifestazioni del gusto: allo slancio verticale, sostenuto dagli archi a sesto acuto, dell’architettura corrispondono, nell’abbigliamento femminile, copricapo a cono aguzzo, scollature a punta e scarpe lunghissime. Caratteristici in tal senso sono gli affreschi del “Maestro dei giochi” di Palazzo Borromeo a Milano della prima metà del secolo. L’esile damigella sulla sinistra, ritratta con lunga sopravveste dalla vita alta e dalle maniche frastagliate alla francese, sembra spiccare il volo. L’abito segue con delicatezza la linea del corpo, mentre le ampie maniche e il lungo strascico testimoniano l’estro del tempo.Tramontato il gotico fiorito, con la sua lussureggiante ricchezza ornamentale, un’ammirabile, armoniosa semplicità si afferma nell’arte quattrocentesca e pone il suo suggello estetico anche sull’abbigliamento. La “nuova moda” annulla tutto ciò che è in disaccordo con la forma naturale. Elimina scarpe a punta, grandi scollature, cocche allungate delle maniche e capigliature esageratamente alte. Al loro posto introduce una nuova norma: l’indumento deve fluire sulla persona senza appesantirne o alterarne la linea.
Il ciclo di affreschi della chiesa di San Francesco ad Arezzo per mano di Piero della Francesca è un esemplare documento del costume femminile in bilico tra lo stile gotico fiorito e la naturalezza rinascimentale. Qui alcuni elementi del gusto trecentesco permangono e altri, precursori del nuovo stile, si annunciano.
L’indumento fondamentale resta la gamurra, altrimenti nota come camora o camorra in Toscana e zupa, zipa o socha nell’Italia settentrionale. E’ la veste corrente per “il di sotto” che stabilisce un contatto molto confidenziale con il corpo. Nella prima parte del Quattrocento è adoperata per stare in casa o per uscire ma, per le nobildonne, mai senza la veste per “il di sopra”.
Nell’affresco di Piero L’adorazione del Sacro legno del ciclo della Vera croce, la dama in primo piano a sinistra indossa sopra la gamurra verde scuro una sopravveste detta, in Toscana, cioppa (pellanda in Italia settentrionale), caratterizzata dalla presenza di maniche più o meno ornamentali. Ha ancora un’impronta trecentesca: la vita è segnata alta, aderisce garbatamente al seno per poi allargarsi ampiamente nel ventaglio dello strascico e monta alla gola restando però leggermente scollata sotto la nuca. Grazia particolare hanno le maniche: solitamente lunghe nel nord o strette in Toscana, qui invece, pendenti, fungono da ornamento o da riparo. La dama sulla destra indossa sopra la gamurra rossa una giornea, altra sopravveste in voga all’epoca e di origine militare, caratterizzata da spacchi sui fianchi tali da lasciar intuire la veste di sotto.
La gamurra delinea con esattezza la figura femminile, e tale semplicità è rischiarata solo, allo scollo e al polso, dal candore della camicia, spesso resa pittoricamente con una lieve sfumatura bianca. Le difficoltà nel realizzare il giro manica, costringono a maniche non fisse sul corpo dell’abito.
Nella prima metà del Quattrocento tale soluzione non viene enfatizzata, ma piuttosto dissimulata o solo sottolineata dalla passamaneria. Solo più tardi, attorno agli ultimi decenni del Quattrocento, quando la gamurra diventerà un indumento indipendente e prezioso, i lacci che congiungono la manica alla veste diventano motivo ornamentale, come ben testimonia la veste di Beatrice d’Este ritratta da un anonimo maestro lombardo nella Pala Sforzesca della Pinacoteca di Brera. L’espressione “è un altro paio di maniche”, che ora significa “è ben altra cosa”, deriva proprio dall’uso delle maniche staccabili: in casa se ne tenevano di modestissime, mentre per uscire se ne indossavano di guarnite.
Gli affreschi di Domenico Ghirlandaio a Santa Maria Novella sono molto interessanti anche dal punto di vista della storia del costume; mostrano l’affermarsi, verso la fine del Quattrocento, di un nuovo stile di abbigliamento. La gamurra, ora con scollatura quadrata, segna il busto femminile fino al punto vita. Qui la continuità della figura è interrotta da un taglio da cui parte l’ampia gonna scampanata, elemento essenziale di differenziazione tra questa e la struttura dell’abito gotico.
Nell’affresco La nascita di san Giovanni Battista del ciclo Storie della Vergine e di san Giovanni, la dama al centro dell’opera, probabilmente Giovanna Tornabuoni, indossa una ricca giornea color rosa sopra una sontuosa gamurra beige dalla scollatura quadrata e generosa. Gli sbuffi della camicia, che fuoriescono dalle “finestrelle” della manica, sono ora ben enfatizzati, così come nel caso della semplice gamurra color arancio con maniche verdi e l’allacciatura laterale della donna all’estrema sinistra dell’affresco.
L’usanza di tagli sulla manica, nata dalla necessità pratica di impedire strappi soprattutto all’altezza del gomito, acquista così un valore decorativo. Nella veste dell’umile donna sullo sfondo, con gamurra rossa e maniche verdi, la camicia è ben visibile anche all’attacco della spalla. Una delle dame anziane, al seguito della nobildonna, indossa invece una cioppa damascata con maniche ora più strette e più corte rispetto a quelle, color oro, della gamurra verde, così come la dama che allatta san Giovanni veste una ben più modesta cioppa verde sopra una gamurra azzurra.
Si completa così, sul finire del ’400, la nuova linea femminile; sono gli anni in cui maturano nel costume quei cambiamenti che sfoceranno nel secolo seguente in fogge che si sovrappongono al corpo. Abiti “idolo” che plasmano un corpo ideale, razionalmente strutturato, che nascondono ogni residuo di naturalezza e verità per divenire strutture simboliche della classe dominante. Anche l’abito entrerà, così, a far parte del gioco del linguaggio del potere.
Il costume, dunque, cuneo fisso nel corpo della storia, consente, se ben maneggiato, di penetrare nell’opera d’arte e, dall’interno, di coglierne i caratteri salienti del suo tempo.