Quando, nell’estate del 1914, il giovanissimo Roberto Longhi, scrivendo di getto per i suoi allievi romani del liceo Tasso la Breve ma veridica storia della pittura italiana, formulò un’implicita condanna del nostro Ottocento con la frase “Buonanotte, signor Fattori!”, liquidò senza possibilità di appello una fetta in realtà importantissima della storia dell’arte nazionale. Una tradizione “dal vero” che vede i suoi esordi già nella prima metà dell’Ottocento, per poi segnare il passo alla vera rivoluzione, quella che vedrà la luce nel 1855 con la celebre pittura di macchia.
In Italia i primi barlumi di pittura “dal vero” si hanno al Sud, intorno al 1820, con la Scuola di Posillipo, corrente napoletana – a cui si ricollega anche Corot in uno dei suoi viaggi nello Stivale – guidata dapprima dall’olandese Antonio Pitloo, in seguito da Giacinto Gigante, che riprende la tradizione paesaggistica partenopea seicentesca e settecentesca interpretandola con intimismo lirico e romantico unito ad una resa luministica. Un altro esempio è la nascita di una pittura naturalistica nel Veneto, con il veronese Giuseppe Canella e il bellunese Ippolito Caffi, che propongono un’evoluzione del vedutismo settecentesco con inserimento di elementi naturalistici. Ma la grande rivoluzione è quella della macchia, annunciata nel 1852, quando l’attenzione si sposta a Firenze, al celebre Caffè Michelangiolo di Via Larga. E’ lì che alcuni artisti, appena usciti dalle lezioni all’Accademia, iniziano ad incontrarsi, dando vita a dibattiti accesissimi per discostarsi dai dettami accademici e trovare vie originali, che avrebbero rinnovato il modo di fare pittura. Da Firenze l’attenzione passa poi a Parigi, alla prima Esposizione Universale del 1855, che comprendeva opere dei maggiori esponenti dell’arte francese di primo Ottocento, dove ciò che più colpisce gli italiani Serafino de Tivoli, Saverio Altamura e Domenico Morelli andati per l’occasione, è l’opera del ribelle Courbet, in mostra nel padiglione accanto dopo essere stato rifiutato, e quella dei Barbizonniers, pittori che dipingevano dal vero nei dintorni della cittadina di Barbizon, giocando sulla luce e l’ombra. De Tivoli e Altamura, tornati da Parigi, alimentano le discussioni al Caffè Michelangiolo, colpiti dalla capacità dei francesi di bucare le fronde degli alberi con la luce. Nasce da lì, dalla moda del ton gris e dell’utilizzo dello specchio nero per rendere il chiaroscuro, il concetto di macchia, contrasto violento di chiaroscuri – da cui deriva il termine, all’inizio dispregiativo, “macchiajuoli” -, una pittura che utilizza il colore stendendolo per ampie zone cromatiche, macchie appunto, per definire i volumi, conservando poi la tecnica del chiaroscuro per far risaltare la plasticità.
Firenze e il Caffè non sono ormai più un fatto isolato, bensì una realtà di scambio di idee e un palcoscenico su cui si alternano artisti e teorici delle più diverse correnti, non soltanto toscani, con l’intento di diffondere a livello nazionale il principio macchiaiolo, formando poi varie scuole regionali, ognuna col suo diverso modo di interpretare la macchia. Così a Rivara in Piemonte, a Resina nel napoletano, dove Adriano Cecioni e Giuseppe De Nittis elaborano la Scuola di Resina, Guglielmo Ciardi che passa al Caffè nel 1868 e rinnova in seguito la pittura veneta, mentre Antonio Fontanesi porta le ricerche sulla macchia in Piemonte. Tutto questo molto prima che in Francia si affermi l’impressionismo. La pittura italiana non è inferiore a quella impressionista, è semplicemente diversa. Innanzitutto, è anticipatrice rispetto alla Francia. Inoltre la stessa scelta dei temi è differente. Poveri e quotidiani quelli degli italiani, legati alla dura vita nei campi della loro realtà quotidiana, ma anche alla verità delle grandi battaglie combattute con ardore, da veri rivoluzionari, nell’ansia di creare una nazione, a testimonianza di una nuova sensibilità che non poteva più riconoscersi nello stile della pittura ufficiale, quella romantica e purista delle Accademie. Più mondani e “frivoli” quelli dei francesi, legati ai ritratti alle signore dell’alta borghesia, alla vita cittadina e alla variazione di luce del paesaggio, una pittura che si esprime al meglio su grandi dimensioni, più libera e sciolta. Oltre a questo, il procedimento di stesura e l’effetto che si vuole ottenere è completamente differente. Gli italiani procedono difatti con un’operazione di estrema sintesi, mentre i francesi con un procedimento esattamente opposto, di analisi. Quel che gli italiani cercano di raccogliere sintetizzando, i francesi disperdono analiticamente, così come la ricerca di un taglio di luce diventa nell’ottica francese la ricerca di un’atmosfera, basata sugli effetti del colore e di un’impressione. Ma dietro agli italiani sta la grande tradizione del disegno, quel senso delle forme e il senso plastico tutto toscano, interpretato magistralmente da Giovanni Fattori, il più grande della scuola macchiaiola.
Gli impressionisti al contrario il disegno lo snervano, lo sfaldano nella luce, abbandonando i contorni e dissolvendo l’immagine. Ma perché gli italiani, pur nella loro grandezza, che non li rese inferiori agli altri, non ebbero la fama e la fortuna dei francesi? Le motivazioni possono essere più di una. Innanzitutto la situazione storica e geografica dell’Italia, molto diversa da quella francese. La prima e la seconda guerra di indipendenza, le conseguenti annessioni al Piemonte della Toscana e dell’Emilia, l’impresa di Garibaldi, la conquista del Mezzogiorno, porteranno a quell’“Unità italiana” che, nonostante i travagli della terza guerra d’indipendenza, permetterà al Paese, nel 1871, di entrare definitivamente nel sistema degli Stati europei.
La pittura figurativa italiana perde così progressivamente il suo ruolo egemonico di fronte ad una realtà artistica ormai di diffusione continentale e viene suddivisa e frazionata per ambiti regionali, per culture locali; non si concentra in un’unica città come succede in Francia, dove Parigi è fulcro non solo del Paese, ma del mondo intero. Perché i francesi radunati a Parigi sono al centro dell’attenzione, identificati attraverso il lavoro di grandi mercanti (come Paul Durand-Ruel) e considerati dai critici d’arte fautori del linguaggio più aggiornato e più alto. In realtà, una pittura come quella italiana, che veniva giudicata “provinciale” poiché legata ad ambiti regionali e a temi modesti, lo era soltanto nei contenuti, non certo nella capacità tecnica, veramente altissima. Lionello Venturi parla di alcune tavolette di Giovanni Fattori considerandole di “livello assoluto”, non inferiori sicuramente alle opere di Monet e compagni. Forse il vero problema degli italiani è stato quello di non avere la fortuna di essere “di moda”. Di non essere nel cuore del mondo in un momento storico in cui tutto ciò che contava era là, a Parigi. Tutto il resto, semplicemente provincia.