Un frammento scolpito come una ciocca di capelli, tondo e spezzato, emerge dalla terra umida. Si avverte il mistero: chi era la divinità che qui veniva venerata, nel ventre della montagna?

Si scende lentamente. Il sentiero scosceso taglia i fianchi del colle Ilino, tra arbusti, rocce affioranti e silenzi profondi, fino all’imbocco nascosto della grotta di Crno jezero – il Lago Nero.


Siamo sulla penisola di Pelješac, nel sud della Croazia, a poca distanza dal villaggio di Ponikve e dal mare dell’Adriatico. Il sole è forte lassù, ma qui l’aria cambia. Si accede al regno delle ombre, dove il tempo si fa pietra e memoria. Dalla pietra, verso la cima, scende un potente raggio di luce che sembra rivoltare i sassi Il quadra che si dischiude è emozionante. Oscurità ai lati e questa lama perfetta che arriva dal cielo, come un viatico in direzione dell’eterno. Ecco, vediamo bene l’entità del fenomeno luminoso, che indica un punto.

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Gli archeologi del Museo di Dubrovnik si muovono in fila, illuminando con le torce le pareti umide e i pavimenti scivolosi della cavità, lunga 238 metri e profonda 94. È uno dei maggiori ambienti speleologici della regione, ma solo ora si comincia a comprenderne l’importanza rituale e antropologica.
Si scava in silenzio. Due piccole trincee – solo sei metri quadrati in tutto – bastano a cambiare la storia locale. Si rinvengono resti umani e ceramiche, frammenti e segni che testimoniano un uso prolungato della grotta, lungo millenni.
La prima fase documentata risale all’Età del Bronzo, al secondo millennio avanti Cristo. Allora, il Lago Nero era un rifugio: si cercava riparo dalla guerra, dalle intemperie, oppure si sostava in alloggi temporanei durante i cicli stagionali di pastorizia. L’archeologia lo sussurra attraverso i cocci, le pietre annerite dal fuoco, le tracce di passaggi umani.
Poi, tra il IX e il VI secolo a.C., il buio diventa casa dei morti. Si nota come alcune zone della grotta siano state trasformate in una necropoli. Vengono identificati resti scheletrici, soprattutto cranî, disposti tra le pietre di un tumulo. Sono riti di sepoltura, forse legati a una comunità illirica protostorica. La montagna custodiva le anime e la grotta ne era il portale.
Ma è nel cuore dell’Età del Ferro, verso la fine del primo millennio a.C., che Crno jezero diventa un luogo sacro. I segni si fanno più eloquenti. Si rinvengono offerte votive nelle zone più nascoste: vasi in ceramica fine, piccoli recipienti prodotti localmente o importati dalla Grecia, mai usati per la vita quotidiana. Anfore da vino, coppe eleganti, ceramiche da simposio: oggetti che parlano di ricchezza e cerimonia.



Ed è qui che si inserisce la grande questione culturale. Gli Illiri, popolazioni indoeuropee stanziate tra le Alpi Dinariche e l’Adriatico, costituivano un arcipelago di tribù autonome ma accomunate da lingua, costumi guerrieri e credenze religiose. La loro cultura, sviluppatasi tra l’Età del Bronzo e l’arrivo dei Romani, era profondamente intrecciata con la natura, il culto degli antenati e le forze ctonie. Le grotte, viste come luoghi di transito tra mondo terreno e mondo sotterraneo, avevano una valenza sacrale fortissima. Qui si seppelliva, si offriva, si evocava. Non è un caso che proprio in contesti cavernicoli si trovino tracce di rituali con vino e ceramiche da simposio: simboli di comunione con gli dèi, ma anche di uno scambio simbolico tra vivi e defunti. Le influenze greche – filtrate dal commercio costiero – non cancellarono, ma rafforzarono il vocabolario rituale locale, generando un sincretismo originale, tipico dell’Illiria meridionale.
È in questo contesto che affiora uno dei reperti più intriganti: un frammento ceramico che raffigura una testa divina. Di essa resta solo la capigliatura riccia, ma l’iconografia richiama modelli ellenistici. Potrebbe trattarsi della rappresentazione di un dio greco, assimilato dai culti illirici, in un sincretismo religioso ancora da indagare.
I confronti si moltiplicano. Altri santuari simili, come Vilina špilja presso la sorgente dell’Ombla o la Spila di Nakovana, offrono analogie interessanti. Anche lì si trovano segni di rituali con il vino, simbolo di transito, abbondanza e sacralità. Crno jezero entra dunque nel pantheon dei grandi luoghi sacri del sud della Dalmazia preromana.
Ma la storia non finisce con l’Antichità. Si scopre che la grotta fu usata ancora nel Medioevo, fino al XIII secolo. Nelle sue zone più profonde, quasi irraggiungibili, sono stati rinvenuti scheletri umani medievali. Non sono accompagnati da oggetti, e non si sa se vi siano giunti per scelta o per caso. Ma la datazione al radiocarbonio non lascia dubbi: anche in epoca cristiana il luogo mantenne una valenza particolare, forse legata a eremitaggi, rifugi o culti residuali.
Il coordinatore delle ricerche, Domagoj Perkić, insieme a Krešimir Grbavac, Paula Knego, la restauratrice Sanja Pujo e le speleologhe del club Ursus Spelaeus, ha operato in condizioni ambientali difficili. Ma i risultati valgono lo sforzo: offrono una finestra su una spiritualità arcaica che si esprimeva nel buio e nell’eco della pietra. Là dove il corpo veniva sepolto, e il vino versato, si celebrava la presenza degli dèi e il passaggio delle anime.
L’uso combinato come rifugio, necropoli e santuario rappresenta un caso emblematico della cultura illirica e dei suoi legami con il Mediterraneo orientale. I reperti in ceramica e i resti ossei verranno ora studiati in laboratorio, per estrarre informazioni sul DNA, sull’alimentazione e sulle rotte commerciali dell’epoca. Ma intanto si può già intuire qualcosa di più profondo.
Ci si ferma nel punto in cui la luce delle torce si rifrange sull’acqua stagnante, che ha dato nome alla grotta. Il “lago nero” esiste davvero, un piccolo specchio profondo, che riflette il soffitto roccioso e le sue ombre. Si ha l’impressione che qualcuno stia ancora guardando.