Un piccolo volto femminile, un elegante monumento funebre e una storia terribile di amore e di tradimento. Gli Uffizi ricordano oggi, esaminando la bella struttura dell’ara di Giunia Procula, una vicenda familiare di duemila anni fa che unisce la tenerezza per una bambina scomparsa alla furia incontenibile di un padre ferito. Sul marmo candido non solo parole d’affetto e memoria, ma anche maledizioni scolpite con rabbia, che trasformano un sepolcro in testimonianza vivissima di passioni umane. Un frammento di quotidianità romana, rivelato nella sua crudezza e autenticità.
Nel cuore delle Gallerie degli Uffizi – che sta lavorando molto bene e in modo coinvolgente, nella promozione delle proprie collezioni – tra le testimonianze più toccanti dell’antica Roma, si erge l’ara funeraria dedicata a Giunia Procula. Questo monumento, oltre a celebrare la breve vita di una fanciulla, custodisce una storia familiare complessa, fatta di amore, tradimento e vendetta, scolpita nel marmo per l’eternità.

Il volto di Giunia Procula: innocenza e bellezza

La parte frontale dell’ara presenta il ritratto di Giunia Procula, una bambina scomparsa poco prima di compiere nove anni. Il suo volto, incorniciato da riccioli secondo la moda dell’età flavia (69-96 d.C.), richiama le raffigurazioni delle donne della dinastia imperiale, come l’imperatrice Domizia. La decorazione dell’ara è ricca di simboli: un festone di fiori e frutta, sostenuto da corna di Giove Ammone, sovrasta un’aquila ad ali spiegate; sotto, un grifone azzanna un toro, mentre sopra un cane fa cadere una cesta di frutta retta da un erote. Elementi che celebrano la vita e la morte, l’innocenza e la forza, in un equilibrio di significati che trascende il tempo.
Il retro dell’ara: una maledizione incisa nella pietra

La sorpresa più sconvolgente si trova sul retro dell’ara, solitamente lasciato grezzo perché non destinato alla vista. Qui, M. Giunio Eufrosino, padre di Giunia Procula, incise una maledizione contro la moglie, Giunia Atte, ex schiava liberata e poi sposa, accusata di averlo tradito e abbandonato. Il testo, inciso sul lato che normalmente poggia contro il muro, rivela un’esplosione di collera che travalica il dolore per la perdita della figlia:
“Quanto è scritto valga a perenne infamia della liberta Atte, avvelenatrice ed ingannatrice perfida e senza cuore: dei chiodi e una fune di sparto le leghino il collo e pece bollente le bruci il petto malvagio. Fu manomessa gratis e se ne andò con l’amante; raggirò il padrone e mentre questi giaceva a letto, malato, gli portò via l’ancella e il giovane schiavo che l’assistevano, tanto da far perder d’animo il vecchio rimasto solo, abbandonato e derubato. La medesima infamia ricada anche su Imno e su coloro che hanno seguito Zosimo.”
Una damnatio memoriae privata, un atto di condanna all’oblio che, paradossalmente, ha preservato la memoria di Atte nei secoli, trasformando l’ara in un documento unico della vita familiare romana.
La damnatio memoriae: tra pubblico e privato
La damnatio memoriae era una pratica ufficiale romana, riservata a personaggi pubblici giudicati colpevoli di crimini contro lo Stato. Comportava la cancellazione del nome dai monumenti, la distruzione delle statue, la rimozione delle immagini dalle monete. Ma il caso di Atte ci racconta un uso domestico, viscerale, emotivo di questa pratica: non una sentenza emanata dal Senato, ma una ferita personale scolpita nella pietra da un uomo che non si sentiva più padre né marito, ma vittima.
Questa maledizione privata mostra quanto i confini tra pubblico e privato fossero permeabili nella cultura romana. Il monumento, pur destinato al ricordo di una bambina, diventa un mezzo per lanciare accuse, per delegare alla figlia defunta la funzione di testimone verso gli dèi Mani, affinché la vendetta superasse anche la morte.
Il ruolo delle donne romane: tra idealizzazione e demonizzazione
L’ara di Giunia Procula ci offre anche uno spunto per riflettere sul ruolo delle donne nella società romana. Atte, da schiava a liberta, da moglie a traditrice, incarna i due estremi della rappresentazione femminile: l’ideale matronale e la figura negativa della donna infedele e pericolosa. Le parole di Eufrosino non lasciano spazio alla pietà: Atte è una “perfida”, una “senza cuore”, colpevole non solo di adulterio, ma di attentare alla struttura domestica.
Non è solo una moglie infedele, è una presenza tossica, portatrice di disordine, accusata di stregoneria e avvelenamento, di essersi approfittata della debolezza del marito per derubarlo. L’uso di espressioni così violente e rituali come “i chiodi le leghino il collo” e “pece bollente le bruci il petto” appartiene a un lessico magico-religioso, simile a quello delle defixiones, le famigerate “tavole di maledizione” della Roma popolare.