Un buio profondo accoglie chi scende nei recessi della grotta, dove nulla si muove da millenni. Ma fra le concrezioni calcaree, qualcosa non torna: linee troppo diritte, simmetrie troppo umane.
Le stalagmiti parlano, ma il loro linguaggio è cifrato, fatto di tagli, dislocazioni, spostamenti calcolati. Un ordine nascosto fra le pietre, come se le mani dell’uomo avessero scolpito l’invisibile per chi sapeva vedere.

Nel cuore geologico della regione valenciana, Cova Dones emerge oggi come uno dei più significativi luoghi dell’interazione tra uomo preistorico e ambiente ipogeo. Con il censimento di oltre cento speleofatti – termine tecnico che designa le formazioni carsiche modificate intenzionalmente da mano umana – il sito si colloca al secondo posto su scala planetaria per densità e complessità di tali interventi, subito dopo la celebre grotta di Saint-Marcel, in Francia. Ma il numero da solo non basta a spiegare l’importanza del ritrovamento: ciò che davvero affascina e interroga è la natura stessa di queste manipolazioni, la loro disposizione, e il contesto simbolico in cui appaiono inscriversi.
A operare la ricognizione sistematica è stato un gruppo di ricerca interdisciplinare, composto da archeologi, geologi e speleologi delle Università di Alicante e Saragozza, coadiuvati da specialisti del Paese Basco e della Francia. L’intervento ha portato alla luce tracce inequivocabili di interventi intenzionali molto antichi: stalagmiti spezzate in modo netto, porzioni rimodellate, segmenti riposizionati o raggruppati a comporre strutture geometriche, talvolta di difficile interpretazione. In alcuni casi, la rimozione di porzioni verticali sembra essere servita per aprire varchi e facilitare il passaggio in punti angusti del sistema ipogeo; in altri, le configurazioni suggeriscono vere e proprie composizioni simboliche, in cui lo spazio viene plasmato secondo logiche diverse da quelle funzionali.
Ciò che imprime una profondità temporale al fenomeno è la presenza di ricristallizzazioni di calcite che hanno lentamente colmato, nei millenni, le fratture prodotte, attestando che tali modificazioni non risalgono certo a epoche storiche, bensì a fasi remote della preistoria. I ricercatori, prudenti ma determinati, ipotizzano che alcune strutture possano addirittura risalire al Paleolitico medio, ovvero a una fase in cui l’Europa era ancora popolata dai Neanderthal. La cautela è d’obbligo: la datazione assoluta è ancora in corso attraverso l’analisi dell’Uranio-Torio nelle concrezioni calcaree, affiancata da studi sedimentologici e morfologici.
Tale approccio metodologico è lo stesso che condusse, nel 2016, alla straordinaria attribuzione di strutture analoghe nella grotta di Bruniquel, nella Francia sud-occidentale, a popolazioni neandertaliane vissute circa 176.000 anni fa. Anche lì, come a Cova Dones, si assisteva a una volontà di articolare lo spazio sotterraneo attraverso un’organizzazione che sfuggiva al mero utilitarismo. Le analogie sono inevitabili, ma ogni sito ha la sua grammatica. Nel caso spagnolo, si è evidenziata una particolare attenzione per la disposizione assiale delle stalagmiti, nonché per l’uso dello stesso materiale geologico presente in situ, senza ricorrere a elementi esogeni.
Ad attrarre l’attenzione del team è stata in particolare la varietà morfologica dei manufatti: dalle semplici rotture lineari con parziale rimozione del corpo stalagmitico, a più complesse aggregazioni in anello o in linea, talvolta organizzate lungo assi di simmetria naturale. Alcune sembrano suggerire l’uso di punti luce (torce o focolari) disposti strategicamente per enfatizzare le forme e i giochi d’ombra, come se la percezione estetico-simbolica dello spazio avesse avuto un ruolo centrale. Un’ipotesi che si sposa con l’idea, sempre più condivisa, che le grotte non fossero semplici rifugi, ma spazi codificati, sacri o comunitari, in cui si svolgevano rituali, pratiche di iniziazione o forme di narrazione visiva condivisa.
Il contributo determinante è venuto anche dalla collaborazione con Iñaki Intxaurbe Alberdi, uno dei pochi specialisti europei con esperienza specifica nella classificazione e interpretazione degli speleofatti. La sua ricognizione ha portato alla definizione di un corpus preliminare composto da oltre cento unità, distribuite in diverse camere e gallerie della grotta. La varietà di soluzioni adottate sembra rispecchiare una conoscenza approfondita della materia calcarea e della sua lavorabilità, suggerendo la presenza di una “tecnologia del sotterraneo” tramandata o condivisa in seno ai gruppi umani.
È questa la linea di ricerca che più sta affascinando la comunità scientifica: la possibilità che tali interventi costituiscano una manifestazione, ancora parzialmente opaca, di un pensiero simbolico antico, espresso attraverso la manipolazione dello spazio e delle forme geologiche. Le stalagmiti, per la loro verticalità naturale e la loro crescita silenziosa nel tempo, potrebbero aver assunto valenze analogiche potenti: assi cosmici, presenze antropomorfe, “pietre viventi” in grado di rappresentare l’invisibile. Spezzarle e riassemblarle, quindi, non sarebbe stato un gesto banale, ma un’azione intenzionale, dotata di valore.
Al contempo, emerge una consapevolezza della fragilità di questo patrimonio, difficilmente individuabile e ancor più difficilmente databile con esattezza. Il lavoro degli archeologi si confronta con le sfide della conservazione, della documentazione fotogrammetrica, della restituzione tridimensionale in ambienti a elevata umidità e scarsa illuminazione. Ogni singolo speleofatto dev’essere osservato, registrato e studiato come una scultura invisibile: silenziosa, ma dotata di un potenziale narrativo dirompente. Se le datazioni confermeranno l’antichità sospettata, Cova Dones potrebbe diventare un punto nodale per la comprensione dell’evoluzione cognitiva e simbolica dell’umanità, al pari di Lascaux, Chauvet o Bruniquel.
La storia che si va componendo non è fatta di pitture murali o statuine, ma di pietra spezzata e rimodellata, di architetture miniature immerse nel buio. Una storia che ci chiede di osservare non ciò che è stato aggiunto, ma ciò che è stato alterato con cura. Forse, nei prossimi mesi, nuove analisi permetteranno di avvicinarci al linguaggio segreto inciso nella materia stessa della grotta. Fino ad allora, Cova Dones resta un enigma luminoso, custodito dal silenzio della pietra.
Le grotte furono mai davvero “case” degli uomini preistorici?
Contrariamente a quanto suggerisce l’immaginario popolare – alimentato da iconografie ottocentesche e da certa divulgazione semplificata – le grotte non furono quasi mai il luogo principale della vita quotidiana dei gruppi umani preistorici. Le ricerche archeologiche degli ultimi decenni, in particolare a partire dagli anni ’80 del Novecento, hanno progressivamente smontato l’idea del “troglodita” come abitante fisso delle caverne. Piuttosto, le grotte furono spazi d’uso complementare, usati in momenti specifici e per funzioni che variavano nel tempo.
Quando cominciarono a entrare in uso?
L’uso documentato delle grotte da parte degli ominini risale al Paleolitico inferiore, almeno a 1,8 milioni di anni fa in Africa e a circa 800.000 anni fa in Europa. I siti più antichi in Europa, come Atapuerca (Spagna) o la grotta della Caune de l’Arago (Francia), mostrano tracce di frequentazione da parte dell’Homo heidelbergensis e dell’Homo erectus europeo, in modo però non continuo né abitativo.
Solo con l’avvento dei Neanderthal, nel Paleolitico medio (300.000–40.000 anni fa), le grotte iniziano a essere utilizzate con maggiore regolarità: come rifugi temporanei, luoghi di macellazione, deposito, e talvolta di sepoltura. Ma anche in questi casi, le evidenze indicano una frequentazione stagionale o episodica, non stabile.
L’esplosione simbolica nel Paleolitico superiore
Con l’arrivo dell’Homo sapiens in Europa, tra i 45.000 e i 40.000 anni fa, le grotte assumono un ruolo del tutto nuovo: diventano spazi rituali, simbolici e artistici, come dimostrano le celebri pitture di Chauvet, Lascaux, Altamira o El Castillo.
In questo periodo, le grotte appaiono divise in due grandi categorie funzionali:
- Grotte abitate o usate come riparo, spesso vicine all’ingresso e dotate di luce naturale.
- Grotte profonde o settori interni, frequentati in modo intenzionale per svolgere rituali, attività simboliche o cultuali, spesso in condizioni di oscurità completa.
Il passaggio dall’uso pratico a quello simbolico è cruciale per comprendere la cultura sapiens: la grotta diventa un “luogo altro”, separato dalla vita ordinaria.
Le grotte come luoghi di sepoltura
Nel Neolitico (a partire da 10.000 anni fa circa), con l’affermazione dell’agricoltura e della vita sedentaria, le grotte vengono utilizzate soprattutto come luoghi sepolcrali, soprattutto nelle culture mediterranee. Celebre è l’uso delle grotte per deposizioni collettive in Sardegna, Liguria, Sicilia, Francia meridionale e Spagna.
In questi contesti, la grotta assume un nuovo ruolo, legato al culto degli antenati e alla memoria: spazi liminali tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Quando e perché furono “abbandonate”?
L’abbandono progressivo delle grotte si colloca tra la fine della preistoria recente (Età del Bronzo, 2.000–1.200 a.C.) e l’inizio delle società storiche, con l’arrivo delle prime culture urbane. Le ragioni sono molteplici:
- Cambiamenti sociali: le comunità diventano stanziali, si sviluppano villaggi e abitazioni in superficie.
- Sviluppo di architetture domestiche: capanne, case in pietra e insediamenti palafitticoli diventano autosufficienti rispetto alla protezione offerta dalle grotte.
- Trasformazione del simbolismo: con l’inizio della religione organizzata e dei templi, le pratiche rituali si spostano in spazi costruiti o all’aperto.
- Perdita di accessibilità: alcune grotte divengono difficilmente praticabili a causa di frane, depositi o variazioni climatiche.