
Gesto di odio o sacra disattivazione? Un nuovo studio svela il segreto millenario della grande faraona
Volti splendidi e corpi spezzati
Il fascino di frammenti che non volevano essere dimenticati
A Deir el-Bahri, di fronte ai venti caldi del deserto e all’ombra dell’imponente tempio funerario, migliaia di frammenti di statue regali riposano nel silenzio da tremila anni. Teste scolpite nel granito che conservano un’espressione di calma regale. Corpi rotti con precisione. Gambe spezzate, mani troncate, ma mai il volto. Mai gli occhi, mai la bocca.
Cosa raccontano davvero quei pezzi?
Un nuovo studio, pubblicato il 24 giugno 2025 sulla rivista Antiquity dal ricercatore Jun Yi Wong dell’Università di Toronto, riscrive una delle pagine più affascinanti e discusse dell’egittologia moderna: quella della “distruzione” postuma della grande regina-faraone Hatshepsut.
Non fu una damnatio memoriae
La cancellazione non era odio, ma liturgia di passaggio
Per decenni si è sostenuto che il successore Tutmosi III, figlio di secondo letto di Tutmosi II, avesse ordinato la distruzione delle immagini di Hatshepsut per vendicarsi della sua lunga reggenza.
Ma la logica con cui quelle statue furono danneggiate racconta altro: una frattura selettiva, ordinata, ripetuta. Non violenza, ma liturgia.
L’analisi statistica dei frammenti, esaminati grazie ai taccuini e agli archivi fotografici del Metropolitan Museum of Art relativi agli scavi del 1922-1928, mostra un pattern coerente: rottura di braccia, gambe e busti, ma non dei volti. In Egitto, dove le statue non erano mere rappresentazioni ma vere “abitazioni del ka” (la forza vitale), ciò equivaleva a una sorta di disattivazione sacra.
Una donna con la barba regale
L’invenzione di una nuova regalità
Chi era davvero questa donna, che ancora oggi inquieta e seduce?
Hatshepsut (circa 1507-1458 a.C.), figlia del faraone Thutmose I e della regina Ahmose, salì al trono come reggente per il figliastro Thutmose III. Ma in pochi anni consolidò il potere e si autoproclamò faraone, assumendo titoli maschili e iconografia regale, compresa la barba posticcia simbolo della sovranità divina.
Non fu solo una sovrana per transizione: fu un’imperatrice architetta, esploratrice e riformatrice. Fece erigere templi magnifici, tra cui l’eccezionale santuario di Deir el-Bahri, mandò spedizioni commerciali fino al leggendario regno di Punt e restituì stabilità all’impero.
Fu un genio politico, una visionaria, una sfida vivente all’ordine maschile del tempo. Eppure, il suo regno fu ricordato per secoli nei registri ufficiali come un’interruzione fastidiosa.
Le faraone: un’eccezione o una tradizione nascosta?
Il potere femminile sotto le sabbie: tra privilegio e negazione
Hatshepsut non fu l’unica donna a salire al trono d’Egitto, ma certo fu la prima a esercitare il potere in modo così pieno, così esplicito. Altre figure regali femminili si incontrano nella storia egizia — Sobekneferu, Nitocris, Cleopatra VII — ma il loro ruolo fu spesso marginalizzato o trasfigurato. Il potere femminile, per quanto sacralizzato nel mito di Iside, restava sospetto sul trono.
Nel rituale statuario, l’ambiguità del genere era tollerata solo quando supportava l’ordine cosmico. Hatshepsut ne forzò i limiti: fu re e regina, madre e padre simbolico del popolo. La sua rimozione dai registri ufficiali, e la frattura delle sue statue, riflettono una complessa dinamica tra genere, religione e politica. Ma non furono necessariamente atti di disprezzo.
La frattura come gesto di chiusura
Una cerimonia di disattivazione, non una vendetta
Il nuovo studio sottolinea come il trattamento delle statue di Hatshepsut segua un modello rituale presente anche per altri faraoni. Non solo lei fu “spezzata”: molti re, al termine del proprio ciclo di culto, vedevano “disattivate” le statue in un rituale di passaggio.
Nel caso di Hatshepsut, la prassi fu probabilmente rafforzata dalla necessità politica di restituire coerenza dinastica dopo un’anomalia regale. Ma il modo stesso con cui fu eseguito il gesto indica rispetto. Le statue non furono scalfite nel volto: mantennero l’aura del divino, anche da rotte.
I gesti sacri hanno forma
Le rotture non furono mai casuali
Gambe, ginocchia, spalle e vita: il punto di frattura ricorre. È sempre lì che veniva interrotta la trasmissione dell’energia vitale. Anche il luogo dove furono seppelliti i frammenti — zone rituali del tempio stesso — conferma che non si trattò di un’azione clandestina o distruttiva, ma pubblica, cerimoniale, codificata.
In alcune aree, le statue furono riciclate nei muri di edifici successivi, prassi comune nell’antico Egitto, ma solo dopo essere state disattivate con cura. Questo doppio livello — rituale e pratico — fu letto per secoli come segno di damnatio. Ma era altro: era rispetto per un ordine superiore.
Gli occhi che ancora ci guardano
Il volto di Hatshepsut è sopravvissuto per ricordarci che nulla si cancella davvero
Ciò che rimane di Hatshepsut, oggi, sono centinaia di occhi scolpiti che sembrano fissarci da sotto la sabbia. Non furono distrutti. Furono conservati, protetti. Hanno attraversato il tempo per consegnarci la memoria di una donna che regnò come un uomo, ma senza mai tradire la propria complessità.
Quel volto ci dice che i frammenti non sono rovine: sono parole. E che forse, proprio spezzandoli con cura, gli antichi vollero dirci che Hatshepsut non doveva essere dimenticata, ma trasformata.
Qual era il rapporto tra Hatshepsut e Tutmosi III? Era solo rivalità? O c’era attrazione, ombra d’amore, conflitto edipico, desiderio represso?
Seguiamo le vene sotterranee della storia.
Tra madre e rivale: Hatshepsut e Tutmosi III
Un legame più profondo della pietra: amore, conflitto, seduzione del potere
Quando il padre, Tutmosi II, morì intorno al 1479 a.C., lasciò due figure: un figlio maschio avuto da una concubina minore, e una figlia della moglie regina.
Il figlio era ancora un bambino. La figlia era Hatshepsut, sposa regale e sorellastra del defunto faraone.
Fu lei a prendere in mano il trono. Ufficialmente come reggente per il giovane Tutmosi III. Ma in pochi anni assunse tutti i titoli regali e si fece incoronare faraone in piena regola. Vestì i simboli maschili, la barba posticcia, il copricapo di Horus. E, soprattutto, lo tenne all’ombra. Per più di vent’anni.
Ma chi era questo bambino diventato uomo sotto lo sguardo di pietra della zia-matrigna-regina? Che cosa accade tra un giovane leone tenuto in gabbia e la leonessa che occupa la cima del trono?
I testi ufficiali tacciono. Ma l’archeologia, le omissioni, la logica della corte egizia e i drammi che si ripetono nei cuori umani da millenni, ci sussurrano qualcosa.
Zia, matrigna… regina
Un rapporto di sangue, di educazione e forse di attrazione proibita
Hatshepsut era zia di Tutmosi III. In alcuni documenti viene chiamata mwt nsw – “madre del re” – un titolo che poteva indicare tanto la madre adottiva quanto la reggente.
Probabilmente fu lei a educarlo nei suoi primi anni. Gli diede una posizione a corte, lo pose a capo di qualche esercito simbolico. Ma non gli concesse potere reale.
La corte egizia non era insensibile alla seduzione. I corpi, pur sacralizzati, erano vivi. L’ambiguità dei ruoli – lei con iconografia maschile, lui che cresce all’ombra di una donna che incarna il potere e l’archetipo materno – crea un cortocircuito potente.
Shakespeare avrebbe scritto qui una tragedia fatta di desiderio represso, d’amore inconfessabile, di gelosia che monta come sabbia nel vento.
L’ombra lunga di una donna irresistibile
Potere, bellezza e l’impossibilità di sfuggire all’ingombro del passato
Hatshepsut non fu una figura “fredda”. Le statue la ritraggono con un volto dolce, levigato, di intensità quasi sensuale. Le linee sono morbide, i seni accennati, i fianchi pieni, anche quando è raffigurata in veste maschile.
Il suo potere era carismatico, spirituale, corporeo. E per un ragazzo cresciuto nella sua ombra, qualunque sentimento – odio, venerazione, attrazione – si sarebbe mescolato in un groviglio inestricabile.
Quando finalmente salì al trono, dopo la morte della zia, Tutmosi III si trovò di fronte a un’eredità gigantesca. E a una memoria incarnata ovunque: nei templi, nelle statue, nei rilievi.
Che cosa fa un uomo con una donna che ha dominato il suo destino? La distrugge? La venera?
O entrambe le cose?
Spezzare il corpo per liberarsi dal desiderio
Le fratture delle statue come atto psicologico, oltre che rituale
Rivisitando oggi quelle statue frantumate, con le gambe spezzate e il volto ancora intatto, possiamo leggere non solo un gesto sacro, ma anche un grido personale.
Che sia stato Tutmosi III a ordinarlo o i suoi consiglieri, l’impulso psicologico è chiaro: distruggere l’ingombro.
Liberarsi di un amore che non si poteva dire. Di una madre che fu anche regina, di una rivale che forse era amata.
I frammenti parlano d’amore e d’odio. Di legami familiari che l’Egitto ufficiale doveva zittire. Ma che la pietra non ha mai smesso di raccontare.
Una tragedia egizia
Tra Edipo e Antigone, tra potere e sangue
La storia di Hatshepsut e Tutmosi III non è solo una cronaca dinastica. È un dramma. Una tragedia arcaica con tutti gli ingredienti: madre simbolica, figlio ambizioso, attrazione e repulsione, lotta per la successione, memoria che non può essere cancellata.
Se Shakespeare fosse nato sotto il sole di Tebe, forse avrebbe scritto di loro.
Avrebbe raccontato un giovane uomo che ama e odia la donna che lo ha cresciuto e oscurato. Una regina che domina, ma che forse non ha mai smesso di proteggere.
E alla fine, una frattura. Non del volto, ma del corpo. Non della memoria, ma della presenza.