Archeologia. Cosa c’è, la sotto? Ha 5500 anni ed è stato recuperato nei giorni scorsi. Chi ospitava? Come venne costruito? Come furono trasportate le pietre gigantesche? Rispondono gli archeologi

Nel silenzio della foresta di Haldensleben, tra il fruscio delle querce si leva un monumento che ha sfidato i millenni e l’oblio: la tomba megalitica di Küsterberg. Oggi, a 5.500 anni dalla sua costruzione originaria, questa imponente architettura funebre del Neolitico torna a parlare grazie a una accurata lavoro di restauro ricostruttivo, frutto della collaborazione tra la città di Haldensleben, l’Ufficio statale per la conservazione dei monumenti e l’archeologia della Sassonia-Anhalt (LDA), e l’Istituto di Preistoria e Protostoria dell’Università Christian-Albrechts di Kiel.

L’inaugurazione del monumento restaurato, avvenuta nei giorni scorsi in occasione della Giornata europea del Megalitismo, segna un momento cruciale per la valorizzazione del patrimonio preistorico dell’Europa centrale, offrendo al pubblico un’occasione unica per toccare con mano la monumentalità e la complessità di uno dei più significativi sepolcri megalitici del continente.


Una tomba per l’eternità: la struttura originaria

Situata in un campo a sud-est di Haldensleben, nei pressi del distretto di Hundisburg (circondario di Börde), la tomba di Küsterberg fu edificata intorno al 3.500 a.C., nel pieno del Neolitico. L’area non è nuova agli archeologi: la foresta di Haldensleben ospita, infatti, la più densa concentrazione di tombe megalitiche dell’Europa centrale, testimonianza di un paesaggio sacro organizzato e intensamente frequentato da comunità agricole e pastorali.

Gli scavi, condotti tra il 2010 e il 2013 nell’ambito del programma di ricerca SPP 1400 “Antica monumentalità e differenziazione sociale”, promosso dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft, hanno restituito un’eccezionale quantità di dati. È stato così possibile ricostruire con precisione la planimetria e le tecniche costruttive del complesso originario.

La camera sepolcrale, orientata secondo l’asse est-ovest, misurava undici metri in lunghezza per due di larghezza esterna. La sua copertura era costituita da sette enormi lastre litiche, dette “pietre di coronamento”, per un peso complessivo di circa 13 tonnellate, poggianti su 19 ortostati verticali. Alle due estremità della camera si trovavano coppie di ortostati posti trasversalmente, mentre gli spazi interstiziali tra le pietre erano colmati da un’accurata muratura a secco realizzata con grovacca frantumata, lo stesso materiale utilizzato per pavimentare il fondo della camera.

A delimitare l’intero complesso funebre, un peristilio di 16 megaliti disposti a intervalli regolari di due metri formava un recinto allungato di circa 16 metri per cinque. L’ingresso principale alla camera era situato a metà del lato sud, affacciato su uno spazio semicircolare di circa quattro metri di raggio, anch’esso accuratamente pavimentato. In quest’area antistante, si ergono – o meglio, si ergevano – almeno tre megaliti isolati, probabilmente con funzione cultuale o simbolica, due dei quali disposti lungo l’asse dell’ingresso, quasi a segnare un percorso iniziatico o cerimoniale.

Il complesso era in origine ricoperto da un tumulo, almeno fino all’altezza delle pietre di coronamento, costruito probabilmente con il materiale ricavato dall’appiattimento del terreno circostante in fase preparatoria.


Storia di una tomba profanata, ma mai dimenticata

Come spesso accade per i monumenti di lunga durata, la tomba di Küsterberg non fu semplicemente dimenticata o lasciata alla vegetazione. Essa subì nei secoli successivi interventi, trasformazioni e, purtroppo, anche violazioni.

Intorno al 1.000 a.C., nel periodo di transizione tra la tarda Età del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro, la struttura venne devastata. Popolazioni in movimento — forse portatrici di nuove culture e nuovi riti funerari — smantellarono parte del tumulo e rimossero alcune delle pietre del muro perimetrale. Tuttavia, proprio da questo atto di violazione proviene una delle testimonianze più suggestive: un vaso in ceramica a forma di uccello, quasi integro, databile all’Età del Bronzo, che pare essere stato lasciato intenzionalmente nel sito, forse come offerta o come segno di riappropriazione simbolica dello spazio.

Le ultime tracce di utilizzo risalgono a un’epoca molto più tarda, tra il 600 e il 200 a.C., in piena Età del Ferro. La tomba, ormai decontestualizzata, fu ancora frequentata — forse come luogo liminale, di memoria ancestrale, o addirittura come riferimento topografico — prima che la sua funzione originaria si perdesse nella notte dei tempi.


La ricostruzione: tra filologia archeologica e rigore scientifico

L’intervento di ricostruzione, conclusosi nella primavera del 2025, si è basato sui rilievi di scavo e sui dati stratigrafici raccolti nel decennio precedente. La ricostruzione ha mirato a restituire non solo l’aspetto visivo del complesso, ma anche la sua forza simbolica e la sua spazialità originaria.

La scelta di ricostruire parzialmente la tomba — mantenendo la distinzione tra parti originali e ricostruite — si inserisce in una visione moderna della conservazione, in cui il restauro non è mera riproposizione estetica, ma atto critico e filologico. Ogni pietra è stata riposizionata sulla base della documentazione scientifica, mentre le lacune sono state colmate con materiali compatibili ma distinguibili, secondo il principio della “reversibilità” e della “trasparenza” dell’intervento.

Grazie a questo lavoro, il sito è oggi nuovamente leggibile nella sua interezza: uno spazio rituale, costruito per accogliere i defunti e perpetuarne la memoria attraverso la monumentalità della pietra e la perennità del paesaggio.


Un’eredità che parla al futuro

La ricostruzione della tomba di Küsterberg non è soltanto un’operazione archeologica: è un gesto culturale profondo, che interroga il nostro rapporto con il passato, con la morte, con il tempo. Restituire vita a un monumento funerario del Neolitico significa riconoscere la lunga durata delle emozioni umane, il bisogno di lasciare tracce, la volontà di costruire memoria.

In un’epoca in cui il tempo sembra fuggire e il presente divora il passato, il ritorno della tomba di Küsterberg ci ricorda che anche le pietre parlano — se sappiamo ascoltarle.


Come si muoveva una montagna: il trasporto dei megaliti nel Neolitico

Nel cuore del Neolitico, quando l’agricoltura aveva appena trasformato il volto dell’Europa e le comunità umane cominciavano a insediarsi stabilmente, si manifestò una delle imprese più straordinarie e affascinanti della preistoria: il trasporto e la posa in opera di massi ciclopici, i cosiddetti megaliti. Blocchi di pietra che potevano pesare da alcune tonnellate fino a superare le cento, vennero tagliati, trasportati e innalzati senza l’ausilio della ruota, senza animali da tiro, e prima della metallurgia. Una sfida alla fisica e alla logistica, vinta con mezzi semplici e una determinazione collettiva che ancora oggi stupisce archeologi e ingegneri.

Il mistero delle pietre in movimento

I megaliti neolitici non erano semplici pietre poste alla rinfusa. Dolmen, menhir, cromlech e tombe a corridoio rivelano una precisa intenzione simbolica e spaziale. Spesso le pietre venivano estratte da cave distanti anche decine o centinaia di chilometri dal luogo di installazione, e la loro disposizione suggerisce una profonda conoscenza dell’ambiente, dell’astronomia e del simbolismo sacro. Ma come venivano trasportati?

Rulli, slitte, leve: l’ingegno prima della ruota

L’ipotesi più accreditata è quella dell’uso combinato di slitte di legno e rulli cilindrici. I blocchi venivano posti su robuste slitte, costruite con assi incrociate e rinforzate, e fatte scorrere sopra tronchi disposti parallelamente, che venivano continuamente recuperati da dietro e riposizionati davanti. Questo sistema permetteva di distribuire il peso, ridurre l’attrito e mantenere una certa fluidità nel trasporto. A questa tecnica si affiancava l’uso di leve lignee e piani inclinati costruiti con terra battuta.

Un ulteriore accorgimento, dedotto da tracce archeologiche e da esperimenti moderni, potrebbe essere stato l’uso di lubrificanti naturali come acqua, argilla o grasso animale, per ridurre l’attrito tra slitta e terreno o tra il megalite e i rulli. Questo accorgimento avrebbe permesso di diminuire notevolmente la forza necessaria a trainare i blocchi.

Strade neolitiche e viaggi d’acqua

In molti casi si è ipotizzata l’esistenza di strade neolitiche, veri e propri percorsi preferenziali tracciati attraverso boschi e pianure, spesso costruiti con letti di pietrisco, tronchi o rami compressi. Alcune di queste antiche vie sono state effettivamente individuate in ambienti torbosi, dove si sono conservate per millenni. È probabile che questi itinerari fossero usati non solo per trasportare pietre, ma anche come arterie commerciali e rituali.

Un’altra modalità, sorprendente nella sua efficacia, fu l’uso combinato di terra e acqua. In zone attraversate da fiumi o prossime a laghi e coste, i megaliti venivano caricati su zattere e spostati sfruttando la galleggiabilità. Il trasporto fluviale rappresentava spesso l’unica alternativa praticabile per spostamenti su lunga distanza, specialmente quando le masse superavano le dieci tonnellate.

Esempi di potenza organizzata: da Stonehenge al Mediterraneo

Uno degli esempi più emblematici dell’impresa megalitica è rappresentato da Stonehenge, in Inghilterra. Alcune delle pietre che compongono l’anello monumentale provengono da zone lontane centinaia di chilometri, come le Preseli Hills nel Galles o, secondo recenti studi, addirittura dalla Scozia nord-orientale. Il trasporto di questi colossi in epoca neolitica richiese una pianificazione complessa, una forza lavoro consistente e un controllo del territorio che lascia intravedere una società altamente coordinata.

Al sud, nel bacino del Mediterraneo, si trovano esempi altrettanto sbalorditivi. In Spagna, il Dolmen di Menga, con blocchi superiori alle 150 tonnellate, mostra una padronanza tecnica ancora oggi difficile da eguagliare. La cava si trovava a circa un chilometro dal sito e le pietre furono probabilmente trascinate su terreni leggermente inclinati, con un sistema di piani di scorrimento in legno e terra battuta.

Una logistica rituale: il lavoro come liturgia

Se il trasporto dei megaliti fu un’impresa ingegneristica, fu anche e soprattutto un’impresa sociale e culturale. Richiedeva tempo, forza collettiva, cooperazione. Gli archeologi parlano spesso di “società di villaggio” per descrivere queste comunità agricole del Neolitico, ma la loro capacità di coordinare centinaia di persone attorno a un obiettivo comune mostra un livello di coesione straordinario.

Il trasporto stesso, con ogni probabilità, era ritualizzato. Le pietre sacre, magari identificate con antenati o divinità, venivano accompagnate lungo percorsi cerimoniali, tra canti, offerte, forse danze. L’impresa tecnica si fondeva così con la sfera simbolica, e ogni spostamento diventava un atto di creazione dello spazio sacro.

Conclusione: la pietra che cammina

Il trasporto dei megaliti nel Neolitico non fu un’impresa isolata, ma un fenomeno diffuso e ripetuto, che ci racconta molto della mentalità delle prime società complesse. Ci mostra un’umanità che, pur priva di tecnologia moderna, era capace di affrontare le leggi della fisica con soluzioni pratiche, collaborazione e immaginazione. In fondo, i megaliti non sono solo pietre: sono pensiero fatto materia, determinazione scolpita nel paesaggio.


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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa