Archeologia. Incredibile. Il cranio affusolato di una giovane donna e la morte misteriosa: perché era così “deforme” e chi ha colpito la ragazza 6200 anni fa? La spiegazione degli archeologi


Un’antica pratica culturale l’ha resa fragile, ma la violenza che l’ha uccisa è ancora avvolta nel mistero

Un volto deformato dalla cultura

Nel cuore dell’Iran, il destino di una ragazza scolpito nel suo stesso cranio

Nel silenzio millenario del sito neolitico di Chega Sofla, nell’Iran occidentale, un teschio racconta una storia che inquieta e affascina. Apparteneva a una giovane donna, non più che ventenne, vissuta circa 6.200 anni fa, e la sua forma inusuale – allungata, quasi conica – svela una pratica culturale tanto affascinante quanto invasiva: la modificazione cranica intenzionale.
Ma non è solo il rimodellamento a colpire: su quel cranio, un colpo violento e fatale ha lasciato una frattura netta. A ucciderla fu un’arma o un incidente? Il mistero resta, ma oggi gli archeologi hanno strumenti inediti per raccontare storie come la sua.


Chega Sofla, crocevia di riti e sepolture

Un cimitero neolitico tra tombe singole, familiari e monumenti in mattoni

Il cranio è emerso da una delle tante tombe di Chega Sofla, un cimitero che testimonia una comunità in piena evoluzione tra il 4700 e il 3700 a.C. Situato nella provincia iraniana di Ilam, il sito include tombe individuali e collettive, nonché la più antica struttura in mattoni mai rinvenuta in Iran. Un luogo di culto e di memoria, dove le pratiche funerarie riflettono valori, credenze e – forse – gerarchie sociali.
In questo contesto, la giovane dai tratti cranici allungati potrebbe essere appartenuta a un gruppo specifico, portatore di tradizioni identitarie forti.


Il cranio modellato dall’infanzia

Una pratica rituale per costruire status, identità o bellezza

Attraverso sofisticate scansioni TC, i ricercatori hanno rilevato una forma cranica ottenuta con fasciature strette applicate nei primi mesi di vita, quando le ossa sono ancora malleabili. Questo rimodellamento era praticato in numerose culture antiche – dai Maya agli Unni – e serviva a segnare appartenenza, rango o ideali estetici.
Nel caso della ragazza di Chega Sofla, il cranio affusolato non era una malformazione, ma un’espressione della volontà sociale di plasmare il corpo secondo valori condivisi.

La frattura di BG1.12 è mostrata in diverse viste (A–F). La frattura cranica in questo esemplare inizia nella parte anteriore dell’osso frontale e si estende diagonalmente fino al bordo sagittale dell’osso parietale sinistro (G). Crediti:  
International Journal of Osteoarchaeology  (2025). DOI: 10.1002/oa.3415

Ossa sottili e più vulnerabili

La trasformazione estetica che riduce la resistenza agli urti

Tuttavia, la bellezza culturale può diventare fragilità fisica. Le stesse scansioni hanno mostrato che le ossa della calotta cranica erano più sottili della norma, con una diploè ridotta, cioè la parte spugnosa tra i due strati corticali. Questo avrebbe reso il cranio più fragile, incapace di assorbire colpi forti.
Nonostante ciò, secondo gli studiosi, il trauma che l’ha colpita sarebbe stato comunque mortale anche su un cranio “normale”, a causa della violenza dell’impatto.


Una morte improvvisa e violenta

Frattura frontale, nessuna guarigione: il colpo fatale prima del decesso

La TC ha evidenziato una frattura lineare che parte dalla regione frontale e si estende alla parietale sinistra. Il tipo di trauma è compatibile con un colpo inferto da un oggetto contundente a lama ampia – forse un bastone pesante, forse un’ascia.
L’assenza di segni di guarigione indica che il colpo è stato inferto poco prima della morte. Non si trattava, dunque, di un’antica ferita curata o di una deformazione post-mortem. È stato un gesto fatale.


Rituale, omicidio o incidente?

Ipotesi aperte sulla natura del trauma che ha spezzato la sua vita

Resta però ignoto il contesto in cui la ragazza ha perso la vita. Le ipotesi spaziano da un rito sacrificale a un atto di violenza domestica o intercomunitaria, fino a un incidente accidentale. La struttura collettiva della sepoltura e l’assenza di altri elementi specifici rendono difficile avanzare congetture definitive.
La sua morte potrebbe raccontare una storia individuale, ma anche riflettere tensioni sociali o pratiche rituali diffuse nella comunità.


Un corpo come specchio della società

Modificare il cranio, accettare la fragilità, vivere in bilico tra estetica e rischio

La storia della giovane di Chega Sofla non è solo la cronaca di un omicidio irrisolto o di un’antica tradizione funeraria. È il simbolo di un tempo in cui il corpo veniva manipolato sin dall’infanzia, trasformato in portatore visibile di appartenenza e status.
Ma questa trasformazione estetica ha comportato anche una vulnerabilità fisica, un prezzo da pagare per aderire a un modello culturale. E in quel prezzo – una frattura letale su ossa indebolite – si annida un dramma senza voce.


Una ragazza, un colpo, e seimila anni di domande

Nel cranio spezzato si riflettono i riti, le contraddizioni e le paure delle antiche civiltà

Tra i mattoni del primo edificio funebre dell’Iran, nel cuore delle montagne dell’Ilam, una ragazza ha lasciato il suo ultimo sguardo sulla terra. Non ci ha lasciato il suo nome, né il motivo per cui fu colpita. Ma il suo cranio – affusolato dalla cultura, fratturato dalla violenza – è oggi uno specchio eloquente delle contraddizioni umane: tra bellezza e morte, tra appartenenza e isolamento, tra vita e rituale.


📚 Fonti e approfondimenti


Una pratica globale e millenaria

Dall’America precolombiana all’Asia, i popoli che modellavano il cranio

La modificazione cranica intenzionale non è un fenomeno isolato del Neolitico iraniano. È una pratica diffusa in almeno 90 culture antiche di diversi continenti e periodi storici, documentata archeologicamente già dal 10.000 a.C.. I motivi variano, ma ricorrono alcune costanti: identità sociale, status, appartenenza etnica e simbolismo religioso.

Tra i casi più noti vi sono:

  • I Maya e gli Aztechi, in Mesoamerica, che deformavano i crani dei neonati usando fasce o tavole lignee. Un cranio allungato era considerato segno di nobiltà e bellezza. Le fonti iconografiche e i testi coloniali spagnoli confermano che la pratica era sistematica tra le élite.
  • Gli Unni e poi alcuni popoli germani, come i Gepidi, che adottarono la deformazione nel IV-V secolo d.C., influenzati da pratiche turco-nomadi. Era un marcatore di appartenenza etnica e di distinzione culturale in contesti multiculturali post-romani.
  • In Perù, i Nazca e i Paracas (800 a.C. – 100 d.C.) utilizzavano stecche e bende per deformare il cranio frontalmente o obliquamente. Alcuni individui mostrano deformazioni estreme, forse legate a ruoli rituali o di leadership religiosa. I reperti sono esposti nei musei di Lima e Ica.
  • In Melanesia e Nuova Guinea, la pratica è documentata fino al XX secolo e si lega a riti di passaggio e status tribale. In alcuni casi era ritenuta necessaria per «far crescere bene il cervello» o per emulare gli antenati mitici.
  • In Francia, a Hârn, sono state trovate sepolture di donne gallo-romane del V secolo con cranio deformato: secondo alcuni studiosi, si tratterebbe di donne provenienti dall’Est Europa, portatrici di pratiche hunniche adottate nel contesto della tarda antichità.

I metodi erano sempre applicati nell’infanzia, tra i 0 e i 2 anni, quando le ossa craniche sono ancora modellabili. Il tipo di deformazione variava: fronto-occipitale (allungata), circolare (a cupola), obliqua, a seconda della tecnica e dei significati simbolici.

Le analisi bioarcheologiche mostrano che, nella maggior parte dei casi, la pratica non causava deficit cognitivi né dolore permanente, ma comportava alcuni effetti collaterali biomeccanici, come l’assottigliamento delle ossa – proprio come nel caso della ragazza di Chega Sofla.


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Redazione
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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa