Il rintocco giunge fino a noi. La notizia della scoperta è stata data poche ore fa da Antiquity. Sotto uno spesso strato di sabbia, questi due antichi oggetti metallici dormivano da più di quattromila anni. Non sono armi, né utensili. Al loro risveglio, qualcosa di straordinario è emerso: un’eco di suoni dimenticati, un ponte tra civiltà lontane, un enigma che parla di danze, riti e connessioni culturali in un’Età del Bronzo più armonica di quanto avremmo immaginato. Ma chi utilizzava questi oggetti? E perché?
Ritmi dal passato: i piatti in rame di Dahwa

L’archeologia, si sa, è fatta di silenzi lunghi millenni e di improvvise sinfonie: scoperte che rompono il silenzio della storia. È il caso dei due piatti per musica in lega di rame rinvenuti nel sito di Dahwa, in Oman, risalenti a un periodo compreso tra il 2200 e il 2000 a.C., in piena fase della cultura di Umm an-Nar, una delle più affascinanti civiltà della Penisola Arabica. Un ritrovamento non solo raro, ma eccezionalmente ben conservato, il che ha permesso agli studiosi di analizzarlo con una precisione insolita per oggetti di tale antichità. I piatti sono in grado di emettere suoni violenti o celestiali, nel lieve tocco e rintocco, di voci angeliche che giungono da lontano lontano.
Lo studio, pubblicato in queste ore sulla rivista Antiquity, susciterà notevole interesse tra archeologi, musicologi e storici della cultura materiale. Il team guidato dal professor Khaled Douglas dell’Università Sultan Qaboos ha avviato un’analisi dettagliata dei manufatti, combinando osservazione stilistica e analisi isotopica del rame. Il risultato? Un doppio colpo di scena: se da un lato i piatti richiamano nella forma quelli noti nella civiltà della Valle dell’Indo, la composizione chimica racconta un’altra storia, tutta omanita.
L’accordo tra civiltà: Indus Valley e Umm an-Nar
L’analisi isotopica ha rivelato che il rame impiegato nella fabbricazione dei piatti proveniva da miniere locali dell’Oman. Questo non sminuisce l’eco indiana degli oggetti, ma anzi rafforza l’ipotesi di interazioni culturali attive e profonde tra la cultura dell’Umm an-Nar e la coeva civiltà dell’Indo, in particolare con i grandi centri di Harappa e Mohenjo-Daro. Non si tratterebbe, dunque, di importazioni, bensì di produzioni autoctone ispirate da modelli esotici, frutto di un contatto prolungato e fertile tra società diverse.

Il commercio attraverso il Golfo Arabico, ampiamente documentato sin dall’Età del Bronzo, è il contesto in cui inserire questa storia di metalli e suoni. Finora, però, tali relazioni erano state interpretate principalmente in chiave economica, come scambi di beni (ceramiche, perline, lingotti) tra mercanti. La scoperta di strumenti musicali cambia prospettiva: non solo merci, ma anche idee, pratiche rituali, forme d’arte e persino stili musicali viaggiavano sulle stesse rotte.
La musica come linguaggio interculturale
Che funzione avevano questi piatti? Il termine “cymbals” nel contesto anglosassone indica strumenti percussivi a piatto, simili ai nostri piatti orchestrali, capaci di produrre suoni squillanti, adatti ad accompagnare danze collettive, cerimonie religiose o riti di passaggio. Non è da escludere che avessero anche una funzione apotropaica: suoni forti e ritmati, capaci di scacciare spiriti maligni o di scandire i momenti salienti di una processione.
L’uso della musica in rituali è ben documentato in numerose culture antiche. Ma nel caso dell’Umm an-Nar, siamo davanti a una delle prime evidenze materiali di una prassi musicale codificata, probabilmente condivisa in parte con le culture dell’Indo. Il fatto che gli strumenti siano stati trovati in un contesto archeologico chiuso e databile conferisce loro un valore straordinario per lo studio della musica preistorica, un campo ancora in gran parte inesplorato.
Oltre il commercio: reti di scambio culturale

Come sottolinea il coautore dello studio, il professor Nasser Al-Jahwari, il periodo dell’Umm an-Nar è già noto per la sua apertura interregionale. Ma ciò che rimane ancora oscuro è la natura di questi contatti: erano scambi occasionali o relazioni strutturate? Coinvolgevano élite religiose, artigiani itineranti, musicisti specializzati?
L’ipotesi più suggestiva è che la musica stessa fungesse da strumento di mediazione culturale. Come oggi le canzoni possono unire popoli di lingue diverse, così nell’antichità una melodia, un ritmo condiviso o un rito danzato potevano servire a rafforzare alleanze, legittimare cerimonie o celebrare eventi comunitari. Una sorta di “lingua franca” non verbale, capace di creare armonia tra culture diverse, letteralmente.
I piatti di Dahwa: una nuova pagina dell’archeomusicologia
Con la scoperta di Dahwa, si apre una nuova stagione per l’archeomusicologia del Vicino Oriente antico. I piatti in rame non sono solo strumenti: sono testimoni silenziosi di un mondo in cui il suono era sacro, performativo, identitario. Un mondo in cui la musica scandiva il tempo del rito, della festa, dell’incontro.
Oggi quegli oggetti, esposti con la dovuta attenzione, potrebbero idealmente tornare a “suonare” grazie alla riproduzione digitale o fisica, per restituirci l’esperienza sonora di una cultura che, nel fruscio del metallo percosso, cercava forse un contatto col divino o con l’altro da sé.
Conclusione: eco antica, significato presente
La scoperta dei piatti di Dahwa ci obbliga a ripensare l’antica Arabia non come una zona marginale, ma come snodo culturale tra India, Mesopotamia e Levante, capace di elaborare forme originali a partire da influenze multiple. Ed è proprio nella musica – fragile, effimera, ma potentissima – che possiamo rintracciare uno dei fili più sottili e profondi della memoria umana.
Nell’eco lontana di quei piatti in rame, forse, risuona ancora l’idea antica che la cultura non si muove solo per interesse, ma anche per affinità, per emozione, per il desiderio di condividere un ritmo comune.
Lo studio di Antiquity