Pare un tappeto orientale, ma è riferibile al mondo romano-bizantino. L’opera è contrassegnata da bordi geometrici ai lati e, all’interno, da una sorta di mondo-giardino. Un pavimento musivo di scintillante bellezza recuperato ora dagli archeologi. Si erano in esso imbattuti durante uno scavo. Ma ne avevano differito l’emersione. Ora l’operazione è avvenuta. E già emerge il significato dell’opera, in un lavoro che coinvolge anche studiosi italiani.

A distanza di oltre trent’anni dalla sua scoperta e dopo un delicato intervento di conservazione, un capolavoro musivo del periodo bizantino è finalmente visibile al pubblico: il restauro del mosaico di Be’er Shema – noto anche come Birsama – è stato inaugurato il 25 maggio nei pressi del Consiglio Regionale di Merhavim, nel cuore del deserto del Negev occidentale. Siamo a circa 75 km a sud di Gerusalemme, in una regione semidesertica, tradizionalmente associata ai Patriarchi biblici (come Abramo, Isacco e Giacobbe)
L’opera, datata a circa 1.600 anni fa, è una delle più importanti testimonianze musive mai rinvenute nel sud di Israele. A rivelarne la straordinaria ricchezza iconografica sono i suoi cinquantacinque medaglioni, che tracciano un percorso narrativo e simbolico tra scene di caccia, animali esotici, momenti di vita quotidiana e riferimenti alla mitologia classica. Ma non è tutto qui, come vedremo.
Una scoperta riemersa dal silenzio
Scavato nel 1990 e poi interrato: l’oblio provvisorio di un capolavoro tardoantico

Il mosaico di Be’er Shema venne scoperto durante indagini archeologiche condotte nei terreni agricoli a sud del Kibbutz Urim, ai margini del sito di Khirbat Be’er Shema. I lavori furono diretti da Dan Gazit e Shaike Lender, sotto l’egida dell’Israel Antiquities Authority. Dopo la documentazione iniziale, per motivi conservativi, il mosaico fu ricoperto e protetto dal tempo e dagli agenti atmosferici, attendendo tempi più favorevoli per una sua valorizzazione.
Un’opera d’autore
Composizione raffinata, cromie brillanti: la firma invisibile di un maestro del mosaico
“È un mosaico realizzato dalla mano di un vero artista”, afferma Shaike Lender, uno degli archeologi che guidarono gli scavi. Non si tratta infatti di un semplice pavimento decorativo, ma di una composizione sofisticata, pensata come una narrazione visiva, scandita da medaglioni finemente lavorati. Le tessere, piccole e multicolori, sono accostate con una maestria che suggerisce l’intervento di una bottega specializzata e di grande livello.
Non mancano inserti in vetro e ceramica, che donano alla superficie giochi di luce e profondità cromatica. Un linguaggio artistico che – pur radicato nella tradizione bizantina – mostra influssi ellenistici e persino orientali.
Caccia, mitologia e vita agreste?
Una narrazione in frammenti che intreccia reale e simbolico
Il programma iconografico del mosaico è ricco e complesso. I 55 medaglioni raffigurano scene di caccia, con felini e antilopi in corsa, ma anche personaggi mitologici, cesti colmi di frutti, uccelli variopinti, momenti di vita agreste e simboli legati alla fertilità e all’abbondanza.

La coesistenza di elementi naturalistici e mitologici suggerisce una funzione non puramente ornamentale. Il mosaico si offre come un “racconto pavimentale”, destinato forse a celebrare la prosperità della villa o del complesso di appartenenza, oppure ad evocare una visione idealizzata del rapporto uomo-natura, tipica della sensibilità tardoantica e, al tempo stesso, alla diffusione del cristianesimo. Proprie in queste ore, dall’Italia, giunge una lettura ulteriore dell’opera d’arte.

” Da ciò che abbiamo potuto vedere – dice lo studioso Maurizio Bernardelli Curuz, direttore di Stile arte – l’opera rappresenta la varietà potente del Creato, inscritta in un disegno le cui fila sono collegate attraverso tralci di vite e grappoli d’uva. Due i nuclei di rilievo, sotto il profilo del significato, in cima e in fondo al tappeto musivo. Nella parte inferiore, ci i sono due leoni che difendono un nobile contenitore in cui potrebbe accumularsi il vino stesso. In cima al rettangolo si notano invece due meravigliosi, celesti pavoni, che collocati specularmente, osservano un’offerta di frutti. Leoni e pavoni hanno qui dimensioni maggiori rispetto agli altri animali e a uomini e semidei. Quindi essi sono dotati di potenza e di significato”.

“Uccelli sacri a Giunone o già sacri simboli dell’immortalità dell’anima e della Resurrezione dei corpi?- prosegue Bernardelli Curuz – La vite e i tralci, al di là di possibili connessione dionisiache, paiono pulsare dalla parabola di Cristo. A nostro giudizio, l’opera rivela uno straordinario sincretismo legato alla diffusione del messaggio cristiano che vibra, dall’interno, senza rivelarsi completamente, mentre si sta sovrapponendo al mondo cultuale romano. Del resto l’editto di Tessalonica, emanato il 27 febbraio 380 dagli imperatori Graziano, Teodosio I e Valentiniano II, proclamò il cristianesimo niceno come religione ufficiale dell’Impero romano, vietando l’arianesimo e i culti pagani”.


Ed ecco trovata la chiave del significato
Gli iconologi italiani propongono pertanto una lettura legata al passaggio e alla sovrapposizione tra mondo pagano e cristiano. E individuano anche la presenza di una donna con bambino, “In particolare – osserva Maurizio Bernardelli Curuz – la chiave maggiore di una presenza cristologica sottotraccia è data da elementi che appaiono alla base dell’ampio rettangolo musivo. Osserviamo, verticalmente, (nell’immagine qui sotto) la riga al centro: passiamo dall’elemento cristologico dell’uovo e dell’Incarnazione, che troveremo pure in Piero della Francesca, a una Madre con un bambino in braccio. Anche la Madre e il Bambino stanno all’interno del tralcio e accanto a grappoli d’uva. Ma al tempo stesso stanno per finire all’interno del prezioso vaso protetto dai due leoni”.


“I due pavoni nella parte superiore del mosaico – conclude Bernardelli Curuz, rappresentano invece l’incorruttibilità dei corpi – tale era ritenuta la carne di questi animali – , quindi la resurrezione di Cristo e degli uomini. L’intero mosaico, in tal senso appare come rappresentazione del creato e delle forze negative come i lupi, i serpenti e i carnivori – da emendare – e di forze positive. Tutto, però, è abbracciato dalla pianta di vite. L’uva diventa sangue, il male viene cancellato e i corpi risorgeranno”.

Sotto i pavoni – fanno notare gli studiosi italiani – c’è una figura maschile. Da un lato e dall’altro appaiono le lettere Bik Twp. “BIKTWP” è la trascrizione greca maiuscola del nome ΒΙΚΤΩΡ (Vittore, Vincitore). E’ il Vincitore della morte come se fosse un auriga – ha due destrieri, accanto – un campione del Circo?

Il nome Βίκτωρ (Biktōr), cioè Vittore, – dice Bernardelli Curuz – può essere interpretato non solo come nome proprio di una persona, ma anche come titolo simbolico attribuito a Cristo stesso, soprattutto in contesti iconografici, epigrafici o musivi dove l’identità divina è suggerita attraverso appellativi evocativi, anziché rappresentazioni dirette. Si può anche pensare che la figura possa riferirsi anche a papa Vittore I, conosciuto talvolta in modo impreciso come Vittorio I, che nacque nel II secolo nell’Africa Proconsolare e morì a Roma il 28 luglio 199? Fu il quattordicesimo vescovo di Roma e guidò la Chiesa cattolica come papa tra il 189 e il 199. È onorato come santo dalla Chiesa cattolica, dalle Chiese ortodosse e dalla Chiesa copta, presso la quale è venerato con il nome di Boktor. In assenza di ingrandimenti, è per ora difficile capire cosa porti in mano il giovane uomo del mosaico.
“Vittore” come attributo cristologico
1. Cristo come “Vincitore della morte”
Nei testi liturgici, patristici e nelle iscrizioni funerarie, Cristo è spesso evocato con titoli come:
- Νικητής (Nikētēs) – “Colui che vince”
- Νικῶν – “Il vincitore” (Apocalisse 6,2)
- Victor – nelle fonti latine e iberiche: “Christus Victor”, colui che ha vinto la morte e il peccato
In questa visione teologica, Vittore è uno dei tanti appellativi glorificanti di Cristo, al pari di “Redentore”, “Salvatore”, “Re dei Re”, “Agnello”, “Sposo”, ecc.
2. “Christus Victor”: una formula dottrinale
Il concetto di “Christus Victor” è un’antica e autorevole dottrina cristologica:
- Risale almeno al III secolo, in ambienti orientali e nordafricani
- Cristo è visto non solo come sacrificio, ma come trionfatore sugli antichi nemici dell’umanità: la morte, il peccato, Satana
- Il trionfo si compie sulla Croce e si manifesta nella Resurrezione
- Si contrappone all’enfasi esclusiva sul sacrificio espiatorio
Questa idea si riflette nei mosaici, nelle absidi, nei pavimenti delle basiliche paleocristiane, dove Cristo compare spesso in abiti imperiali, su un trono, oppure come agnello trionfante, talvolta con la parola “Vittor” o “Victor” associata.
Il contesto: una villa rustica nel Negev bizantino
Un mosaico che rivela lo status e l’identità di un’élite agricola cristiana
Benché le strutture che circondavano il mosaico non siano completamente conservate, le evidenze suggeriscono, secondo il lavoro svolto dagli archeologi israeliani, che esso appartenesse a una villa rustica tardoantica, forse sede di un notabile locale o di un amministratore imperiale. Il mosaico costituiva probabilmente il pavimento di un triclinio, un’area di rappresentanza o una sala di ricevimento, dove ospiti e proprietari potevano sostare e ammirare il racconto visivo che li circondava.
La presenza di simboli mitologici, accanto a motivi legati alla vita rurale, appare in linea con il sincretismo culturale del periodo bizantino in Palestina, in cui la tradizione classica si fondeva con la nuova cultura cristiana e con i codici visivi locali.
Il ritorno alla luce: progetto “Antiquities Right at Home”
Dalla terra alla comunità: un mosaico restituito al territorio e ai suoi abitanti
Il restauro e la musealizzazione del mosaico sono avvenuti nell’ambito del progetto “Antiquities Right at Home”, promosso dal Ministero del Patrimonio israeliano e dall’Israel Antiquities Authority. Un’iniziativa che punta a rendere il patrimonio archeologico parte integrante della vita quotidiana delle comunità locali, senza confinarlo in musei distanti o depositi.
Il 25 maggio, la cerimonia di inaugurazione ha visto la partecipazione del Ministro del Patrimonio, Amichai Eliyahu, del direttore dell’Autorità per le Antichità, Eli Escusido, del presidente del Consiglio Regionale di Merhavim, Shai Hajaj, oltre a centinaia di studenti e abitanti della zona. Non solo una visita, ma un vero evento culturale, con laboratori creativi, attività per bambini e perfino la piantumazione di nuovi alberi, come simbolo di continuità e rigenerazione.
Un invito a camminare nella storia
Il mosaico di Be’er Shema come portale verso un passato ancora vivo
La restituzione al pubblico di questo straordinario mosaico è un gesto che va oltre la semplice conservazione. È un atto di riconnessione tra territorio e memoria, tra arte e quotidianità. Camminare oggi sulle pietre colorate di Be’er Shema – nella luce obliqua del deserto – significa entrare in contatto con la sensibilità di un’epoca che cercava nella bellezza un rifugio, e nella narrazione visiva un modo per tramandare identità e valori.
Un frammento di mondo riemerso dalla sabbia, per raccontarci, silenziosamente, la sua storia.