Archeologia. Meraviglioso. Tre Grazie emergono dalle tombe bimillenarie della via Appia. Cosa rappresentano? Qual è il loro significato simbolico? E cosa sono questi contenitori inseriti in nicchie simili a focolari?

Il cuore della Via Appia, appena oltre il tracciato delle Mura Aureliane, l’antico continua a parlare. E lo fa con grazia – triplice, danzante, luminosa.

Durante la sesta campagna di scavo del progetto ECeC – Eredità Culturali e Comunità, condotto dall’Università di Ferrara sotto la direzione della professoressa Rachele Dubbini, gli archeologi hanno portato alla luce – in quest’area con funzioni cimiteriali – anche un’intera costellazione di reperti ceramici. Tra questi, una lucerna rotta ma ancora eloquente, sulla cui superficie emergono tre figure nude, abbracciate in una composizione iconica: sono le Tre Grazie. Una scena che non è semplice ornamento, ma un messaggio, come una preghiera, un simbolo, un sigillo del tempo. In questi giorni, come vedremo, qui sotto, nel filmato di Appiantica 39, sono stati trovati altri ambienti. Intatti.

L’archeologo qui sotto, nel video, ci spiega cosa sono quei contenitori inseriti in un modulo architettonico che ricorda un “focolare”.

Il margine sacro: quando l’Appia si fa soglia

Il sito indagato si trova in un punto delicato, al confine tra Roma e la sua memoria sepolta: via Appia Antica 39, poco dopo l’attraversamento del fiume Almone. È qui che sorgeva il santuario di Marte Gradivo, in un paesaggio misto di sacro e sepolcrale, forse anche instabile, dove lo spazio urbano si rarefaceva in campagna e il confine tra la vita e la morte si faceva sottile.

L’indagine – condotta con strumenti rigorosi ma animata da una viva intenzione di restituzione pubblica – non si limita a “raccogliere resti”, ma ambisce a ricostruire un ecosistema culturale. Non sorprende dunque che le lucerne, protagoniste silenziose del ritrovamento, siano oggetto di un’attenzione particolare. Piccole, decorate, integre o frantumate, restano comunque messaggere di luce, trasmettendo – dopo secoli – la loro duplice funzione: illuminare e comunicare. Qui, sotto il video degli archeologi dedicato alle lucerne.


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Tracce d’uso e significati

Le lucerne rinvenute – oltre alle Tre Grazie – presentano un repertorio ricco e sorprendente: un volatile stilizzato, due rami di palma disposti come una corona, una scena erotica. Non si tratta di meri vezzi decorativi. Questi oggetti venivano accesi. Sul beccuccio di alcune lucerne è ancora visibile la patina lasciata dalla combustione dell’olio: tracce di mani che le impugnarono, di notti illuminate, di rituali, forse anche di veglie funebri.

La lucerna trovata durante lo scavo in via Appia @ Appiantica39 – Scavo Archeologico di Via Appia Antica 39, Roma 

Si apre qui una possibilità straordinaria: leggere queste lucerne non solo come strumenti, ma come dispositivi culturali. Ogni immagine scelta per la superficie racconta ciò che chi la commissionava voleva lasciare in eredità: una speranza, una visione del mondo, una propensione estetica, o forse semplicemente il complemento iconografico di un conforto nel buio della morte.


Il dono delle Tre Grazie: da botteghe ellenistiche ai sepolcri romani

Il gruppo delle Tre Grazie (Aglaia, Eufrosine e Talia) affonda le radici nella tradizione religiosa e artistica greca, e risale almeno al V secolo a.C. Nell’immaginario ellenico, le Charites – come erano chiamate – accompagnavano Afrodite e simboleggiavano bellezza, gioia e generosità. I loro nomi – Aglaia, Eufrosine e Talia – condensano significati profondamente legati alla dimensione del piacere condiviso. Aglaia significa “splendore”, “luminosità”: è la grazia che si manifesta come eleganza visibile, come bellezza che risplende. Eufrosine è la “gioia dell’anima”, la letizia interiore che si riversa negli incontri e nelle feste. Talia, infine, evoca la “fioritura”, l’abbondanza naturale, la prosperità che accompagna la vita in espansione. Insieme, le tre incarnano il principio della reciprocità del dono: una offre, una riceve, l’altra restituisce.

Non erano figure mitologiche lontane, ma presenze intime, quotidiane. La loro immagine adornava affreschi, mosaici, gemme, specchi. E lucerne, come in questo caso. Il loro valore era insieme estetico e simbolico: presenze augurali, associate alla grazia della vita e – forse – a quella dell’eterno ritorno.

Non è un caso, infatti, che le Tre Grazie ritornino spesso in contesti funerari o nei luoghi legati al culto dei defunti. La loro disposizione in cerchio, l’abbraccio che annulla la fine e l’inizio, è essa stessa metafora di eternità.


Quando la grazia si fa forma: le Tre Grazie da Raffaello a Canova

Nella lunga genealogia artistica delle Tre Grazie, la tappa romana appena emersa dagli scavi dell’Appia rappresenta solo una delle molte incarnazioni possibili di questo antico archetipo figurativo. Ma è con il Rinascimento e il Neoclassicismo che l’immagine delle Tre Grazie subisce un’impennata di potenza estetica e simbolica, incarnando una tensione nuova tra la classicità ritrovata e la bellezza ideale. Due nomi su tutti cristallizzano questo passaggio: Raffaello Sanzio e Antonio Canova. Due epoche diverse, due sensibilità, un solo soggetto: tre figure femminili, intrecciate tra loro, che diventano l’alfabeto visivo della bellezza assoluta.


Raffaello: il ritmo della grazia e la lezione di Roma

La versione raffaellesca delle Tre Grazie, dipinta intorno al 1504-1505 e oggi conservata al Musée Condé di Chantilly, rappresenta una delle prime affermazioni del giovane pittore urbinate. L’opera nasce in un momento in cui Raffaello è ancora profondamente influenzato dal classicismo peruginesco e dalle suggestioni dell’antico che iniziano a filtrare con forza nel suo immaginario.

Nel piccolo pannello, le tre figure appaiono disposte secondo lo schema canonico ellenistico-romano: la centrale è vista di schiena, mentre le altre due le affiancano frontalmente. Ma ciò che colpisce non è solo l’organizzazione spaziale. È l’equilibrio armonico, quasi musicale, che lega i corpi. I gesti sono delicati, gli sguardi si cercano con pudore, le dita si sfiorano in un moto circolare che richiama il concetto di perenne rinascita.

Non è ancora la sensualità matura della “Fornarina”, ma una grazia astratta, rarefatta, che guarda all’antico con reverenza e vi proietta la luce nuova del Rinascimento. In queste Tre Grazie non c’è solo bellezza: c’è la celebrazione della concordia, dell’amore condiviso, della gentilezza come valore fondante della civiltà umanistica.

Non è un caso che Raffaello le collochi su uno sfondo neutro, privo di contesto narrativo: le Grazie sono fuori dal tempo, come un’idea platonica che si fa carne – e colore.


Canova: il marmo che respira

Le tre Grazie di Canova. Foto di Pugilist e un altro autore 

Se in Raffaello le Tre Grazie sono un’epifania pittorica dell’ideale classico, con Antonio Canova (1757–1822) diventano incarnazione tridimensionale della bellezza neoclassica. Il gruppo marmoreo scolpito tra il 1812 e il 1817 – in due versioni quasi identiche, una per l’imperatrice Giuseppina di Beauharnais, oggi all’Hermitage di San Pietroburgo, l’altra per il duca di Bedford, oggi al Victoria and Albert Museum di Londra – rappresenta forse la più celebre re-immaginazione delle Charites nell’arte moderna.

Canova parte dallo stesso schema compositivo antico, ma lo eleva a una coreografia perfetta, dove ogni gesto, ogni torsione, ogni interstizio tra le membra sembra respirare. Le figure sono nude, ma di una nudità castissima: epidermide di marmo levigato, liscia come porcellana, percorsa da una luce interiore.

Le Tre Grazie di Canova non si limitano a evocare un mondo antico: lo ricreano, infondendo nel marmo una dolcezza che non appartiene più agli dei, ma all’ideale umano. Non è più un’iconografia mitologica, ma una celebrazione dell’amore, dell’armonia tra le persone, della benevolenza sociale. Una bellezza morale, non solo estetica.

Il gesto più potente è quello delle mani: si toccano, si abbracciano, formano un cerchio che è gesto affettivo, ma anche simbolo cosmico. Le loro teste si inclinano le une verso le altre con tenerezza quasi familiare. La composizione invita lo spettatore non solo a guardare, ma a girare intorno alla scultura, partecipando alla danza silenziosa delle Grazie.


Dal simbolo alla forma: il viaggio della bellezza

Dalle lucerne romane alla pittura rinascimentale, fino al marmo neoclassico, il motivo delle Tre Grazie ha attraversato i secoli trasformandosi, ma senza mai perdere la propria natura archetipica. Simbolo di donazione e ricezione (nella lettura platonica, Aglaia dà, Eufrosine riceve, Talia restituisce), incarnano la circolarità delle relazioni umane.

Sono al tempo stesso figlie dell’amore e della primavera, spiriti della natura e intermediari tra l’umano e il divino. Eppure, nei secoli, hanno assunto anche un valore più terreno: celebrazione della grazia femminile, dell’armonia sociale, del piacere condiviso, inteso come dono reciproco.

Perché le tre Grazie in una tomba?

Parche, Erinni e Grazie: il filo, il sangue, il sorriso.

“Le tre Grazie agiscono come sostituzione leggiadra, a fronte della morte, di altri triadi oscure – ha scritto Maurizio Bernardelli Curuz – Nel pantheon greco-romano, il numero tre ritorna come una costante mistica, una formula di ordine e mistero. Ma non si tratta solo di una ricorrenza numerica: è una struttura archetipica, che definisce funzioni, poteri, ambiti d’intervento. Tre, come le vie del destino. Tre, come i tempi della vita. Tre, come i modi in cui il divino si rifrange nel mondo umano. Le Parche, le Erinni e le Grazie incarnano tre visioni inconciliabili dell’esistenza: il destino che si tesse e la fine ineluttabile – le prime -, la colpa che perseguita – le seconde -, la grazia che consola e la circolarità del tempo – le terze – . Triplicità distinte, che raramente dialogano, ma che definiscono per contrasto le soglie dell’umano. Nelle Grazie, attraverso l’abbraccio o lo scambio circolare di un dono assistiamo all’evidenza di un concetto che è dell’Eterno Ritorno. Le tre Grazxie emendano ed esorcizzano, pertanto, le azioni delle altre due triadi mortali”.


Parche: le architette dell’ineluttabile

Le Parche – Cloto, Lachesi e Atropo – sono tra le divinità più inquietanti del pantheon greco e romano. Non operano secondo un’etica o un’estetica, ma secondo una necessità astratta e impersonale. Cloto fila il filo della vita, Lachesi lo misura, Atropo lo recide. Non hanno pietà, non si lasciano corrompere, non amano né odiano. Sono la rappresentazione metafisica del tempo e della morte. Nessun gesto umano può deviarne la trama. Le Parche non puniscono né premiano: eseguono.

La loro triplicità non è relazionale, ma sequenziale: rappresentano una progressione (inizio, durata, fine) inesorabile. E il loro dominio è universale: gli dei stessi le temono. Non sono divinità “narrabili”, nel senso mitico e umano del termine: sono funzioni cosmiche travestite da donne anziane.


Erinni: le persecutrici della colpa

Le Erinni, invece, sono giudici di un ordine etico primordiale. Non puniscono tutti, ma solo chi ha infranto leggi inviolabili: il matricidio, il parricidio, il tradimento del sangue. Sono sorelle, nate dal sangue di Urano e figlie della terra. Le loro vittime sono spesso eroi tragici: Oreste, Edipo, Alcmeone. Esse non decidono la sorte: intervengono quando l’ordine morale è stato sovvertito, e agiscono con ferocia.

A differenza delle Parche, che sono atemporali, le Erinni agiscono nel tempo psicologico del rimorso. Sono il ritorno del rimosso, l’incarnazione del crimine non espiato. Ma, a differenza delle Parche, possono essere placate: nel teatro di Eschilo, si trasformano in Eumenidi (“le benevole”), ottenendo culto e rispetto ad Atene. La loro giustizia può diventare civiltà.


Grazie: la gratuità della bellezza

Aglaia, Eufrosine e Talia sono le portatrici della gioia condivisa, dell’eleganza, della danza e del dono. Rappresentano il piacere che circola, la bellezza che si rinnova nell’interazione. Non sono astrazioni: sono modelli relazionali, forme del vivere bene insieme. Simboleggiano l’ideale sociale dell’armonia, tanto nel banchetto quanto nella tomba, dove spesso compaiono come decorazione augurale.

Sono le più umane, forse, delle tre triadi. E anche le più aperte alla reciprocità. La loro danza, spesso rappresentata come un abbraccio circolare, è una figura di comunione. Non decidono il destino, non puniscono la colpa: offrono uno spazio di sospensione, una parentesi luminosa tra le ombre della nascita e della morte.


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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa