Archeologia. Scoperta. Che ci facevano bambini piccoli nel fondo delle grotte scure disabitate? Cos’hanno trovato gli archeologi? Con chi parlavano i piccolini nel buio spaventoso? Le risposte dei ricercatori in un nuovo studio

I bambini sciamani della preistoria: nuove ipotesi sul ruolo infantile nei culti delle grotte sacre

Un viaggio nelle profondità dell’anima umana preistorica, tra arte, spiritualità e visioni cosmiche: la nuova ipotesi dell’Università di Tel Aviv cambia il nostro modo di leggere la presenza infantile nei santuari sotterranei del Paleolitico.


Perché gli antichi esseri umani rischiavano la vita per portare bambini di appena due anni nelle zone più oscure e inaccessibili delle grotte decorate con arte rupestre? È la domanda inquietante – e affascinante – a cui tenta di rispondere un gruppo di archeologi dell’Università di Tel Aviv, guidati dalla dott.ssa Ella Assaf, dal dott. Yafit Kedar e dal prof. Ran Barkai. Il loro recente studio, pubblicato sulla rivista Arts, propone una nuova lettura di questo antico enigma, offrendo uno sguardo vertiginoso sul mondo spirituale delle società preistoriche.

Un mistero tra luce e buio

Le pitture rupestri, che ornano centinaia di grotte in Europa occidentale – soprattutto in Francia e Spagna – sono tra le più straordinarie testimonianze della coscienza simbolica dell’Homo sapiens. Rappresentazioni di animali, segni astratti, figure antropomorfe e misteriosi simboli compaiono su pareti remote, spesso accessibili solo dopo lunghi e pericolosi percorsi nel ventre della terra.

È qui che si affaccia, sorprendentemente, l’infanzia.

Numerose grotte conservano tracce inconfondibili del passaggio di bambini: impronte di mani piccole, talvolta realizzate con pigmenti soffiati sul contorno delle dita, oppure incisioni eseguite con movimenti goffi e lineari. In alcuni casi, come nella grotta di Rouffignac o nella grotta della Basura (Liguria), si rinvengono addirittura impronte di piedi infantili accanto a quelle adulte, spesso in contesti rituali.

Ma perché?

L’ipotesi spirituale: bambini come mediatori

L’idea centrale proposta dal team israeliano è che i bambini, nelle culture del Paleolitico, non fossero semplici apprendisti dell’arte e del mito, ma veri e propri agenti rituali: esseri liminali capaci di porsi in contatto con le forze invisibili che abitavano il cosmo.

Le grotte, infatti, non erano semplici rifugi o luoghi decorativi. Erano, nelle parole di Barkai, “portali verso l’oltremondo”, porte d’accesso all’invisibile, al sacro, agli spiriti. E i bambini, appena emersi dal mistero della nascita, non ancora pienamente “assorbiti” dal mondo ordinario, erano percepiti come creature ancora collegate al soprannaturale.

“I bambini piccoli erano considerati mediatori tra il mondo terreno e quello spirituale – scrivono gli autori –. Il loro coinvolgimento era parte integrante delle pratiche rituali, in quanto si riteneva potessero comunicare più facilmente con le entità dell’aldilà”.

Un concetto, questo, ben noto in molte culture tradizionali: ancora oggi, in società sciamaniche dell’Amazzonia, della Siberia o dell’Africa sub-sahariana, si attribuisce ai bambini piccoli una particolare “trasparenza spirituale”, una permeabilità che li rende ricettivi al mondo degli spiriti.

L’infanzia come dimensione altra

Questa nuova lettura sovverte molti dei paradigmi finora accettati. Fino ad oggi, la presenza infantile nelle grotte era interpretata soprattutto in chiave pedagogica: si pensava che i bambini accompagnassero gli adulti per apprendere le tradizioni o partecipare a riti di passaggio.

Ma l’ipotesi del team israeliano va oltre, intrecciando dati archeologici con studi etnografici, psicologici e neuroscientifici. I bambini non erano “in formazione”, ma pienamente inseriti nella dimensione cosmologica della comunità.

“Il mondo infantile non è semplicemente un riflesso in miniatura di quello adulto – spiega la dott.ssa Assaf –. I bambini possiedono un universo cognitivo e percettivo distinto, che le culture antiche riconoscevano come prezioso e speciale”.

In altre parole, non solo si accettava che i bambini potessero interagire col sacro: si riteneva che la loro presenza fosse necessaria per attivare i processi rituali e ottenere favori dalle entità spirituali.

La grotta come utero cosmico

Uno degli aspetti più potenti della nuova ipotesi risiede nella simbologia della grotta stessa. Spesso assimilata all’utero materno, la grotta è un luogo dove si entra per rinascere, per trasformarsi. È un contesto liminale, intermedio tra superficie e profondità, tra luce e buio, tra vita e morte.

In questo spazio, i bambini – anch’essi esseri liminali, “appena arrivati dal mistero” – avrebbero avuto un ruolo fondamentale nel mediare il passaggio tra i mondi, fungendo da intercessori per gli adulti.

Il linguaggio dell’arte rupestre, quindi, non sarebbe solo l’espressione della mente adulta, ma un complesso dialogo collettivo, dove l’infanzia partecipa attivamente alla costruzione del sacro.

Strumenti musicali e oggetti rituali infantili

Tra le scoperte più suggestive del team, vi sono oggetti interpretabili come strumenti musicali destinati ai bambini, come i flauti ritrovati nella grotta di Rouffignac. Questi manufatti, costruiti per essere utilizzati da mani piccole, potrebbero aver avuto un ruolo nelle cerimonie rituali: suoni che riecheggiano nel buio per evocare presenze, aprire portali, segnare passaggi simbolici.

Questa dimensione performativa – tra arte, musica, danza e spiritualità – restituisce un quadro dinamico e integrato della cultura preistorica, lontano dall’immagine statica e “adulta” a cui siamo abituati.

Un paradigma in trasformazione

Le implicazioni di questa ipotesi sono profonde. Non solo ci costringono a riconsiderare il ruolo dell’infanzia nelle società paleolitiche, ma mettono in discussione l’idea che l’arte rupestre sia esclusivamente il prodotto di una coscienza maschile, adulta e razionale.

Ci troviamo, invece, di fronte a un sistema complesso in cui l’interazione tra età, ruoli, stati di coscienza e simboli cosmici produce un linguaggio condiviso, in cui ogni membro della comunità – dal neonato allo sciamano – ha un posto e una funzione.

“È una rivoluzione concettuale – afferma Barkai –. Se accettiamo questa lettura, dobbiamo rivedere non solo la storia dell’arte, ma l’intera antropologia del sacro nel Paleolitico”.

Verso una nuova archeologia dell’infanzia

L’infanzia, troppo a lungo trascurata nelle ricostruzioni preistoriche, emerge ora come fulcro simbolico e spirituale. Non più semplice spettatrice, ma protagonista attiva di un mondo in cui il visibile e l’invisibile si intrecciano senza cesure.

Questo studio non solo arricchisce la nostra comprensione del passato, ma ci invita a riflettere su come le società moderne abbiano “domesticato” l’infanzia, riducendola a una fase di passaggio, mentre per millenni è stata vissuta come soglia privilegiata verso l’altrove.

E chissà che, un giorno, proprio ascoltando il linguaggio dimenticato dei bambini delle grotte, non riusciremo a intravedere qualcosa di essenziale anche per noi, uomini e donne del XXI secolo, che abbiamo smarrito il senso del sacro nella profondità del mondo.


Fonti:
Assaf E., Kedar Y., Barkai R., Children in Paleolithic Cave Art: New Hypotheses and Interpretations, Arts Journal.
Documentazione integrata da materiali etnografici, studi di archeologia cognitiva e ricerche sulla percezione infantile nei contesti rituali.


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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa