Nel cuore del deserto arabico, dove oggi regnano sabbia e silenzio, un’antica civiltà riemerge. Sotto le dune, un’inaspettata rete di oasi fortificate, risalenti a oltre 4.000 anni fa, rivela un sofisticato modello di insediamento stabile, agricolo e militarizzato. La scoperta, guidata da un’équipe internazionale e pubblicata sulla rivista Antiquity, ridisegna la storia delle prime società sedentarie della penisola arabica.
Siamo nel nord-ovest dell’attuale Arabia Saudita, tra Tayma e Thaj, lungo una direttrice che un tempo collegava il Levante mediterraneo al Golfo Persico. Qui, grazie a immagini satellitari, fotografie aeree e scavi archeologici, sono stati identificati almeno dieci insediamenti murati, alcuni già noti, altri mai documentati prima.
Difesa, agricoltura, potere
Le mura come simbolo e strumento di controllo
Non si tratta solo di villaggi: queste oasi erano vere e proprie città chiuse da mura spesse fino a due metri e lunghe anche otto chilometri, come nel caso di Khaybar. Oltre a difendere dagli attacchi, le mura delimitavano aree coltivate con palme da dattero, campi di cereali, pozzi e stalle per capre e pecore. All’interno, comunità sedentarie gestivano risorse vitali, ridefinendo il paesaggio e rompendo con la tradizione nomade.
Secondo l’archeologo Guillaume Charloux, tra gli autori dello studio, la costruzione delle mura richiese un’enorme organizzazione collettiva. Non erano solo barriere, ma manifestazioni di potere visibile e duraturo, tramandate e ricostruite per generazioni.
Oasi perdute ritrovate
Quattro nuovi siti e una rete che durò millenni

Le nuove scoperte includono Dumat al-Jandal, visibile in foto aeree del 1964; Khaybar, datata tra il 2250 e il 1950 a.C.; e le misteriose Hait e Huwayyit, identificate solo di recente via satellite. A queste si aggiungono Tayma e Qurayyah, i cui muri risalgono addirittura a 5.000 anni fa.
L’intero sistema non fu statico. Durante l’Età del Bronzo (3000–1200 a.C.) si gettarono le basi. Nell’Età del Ferro (1200–550 a.C.) le oasi si ampliarono. E in epoca romana, il modello fu esportato a est. Sorprendentemente, ancora nel XIX e XX secolo, oasi come Medina e al-Ula continuarono a essere protette da mura agricole contro razzie tribali.
Una rivoluzione sociale invisibile
Non tende, ma case. Non tribù erranti, ma comunità organizzate
La presenza delle mura cambia radicalmente l’immagine di un’Arabia abitata solo da nomadi. Chi costruì queste strutture era stanziale, organizzato, capace di gestire irrigazione e raccolti, di creare magazzini, presidiare i pozzi e addomesticare un paesaggio altrimenti ostile. Il muro segna la nascita di una ruralità politica: il territorio diventa proprietà, difeso e coltivato.
Questa trasformazione fu anche culturale. Le palme da dattero, introdotte 4.000 anni fa, divennero simbolo di prosperità. Le oasi fortificate, nodi di scambio e produzione, avrebbero poi alimentato la nascita dei regni carovanieri arabi.
Oasi, acqua e potere
Che cos’è un’oasi e perché ha sempre generato ricchezza, contese e civiltà

Un’oasi è un’area fertile e abitabile all’interno di una regione desertica, dove l’acqua è disponibile grazie a sorgenti sotterranee, falde freatiche, wadi stagionali o sistemi di irrigazione. In arabo, il termine usato è wāḥa, mentre la parola “oasi” deriva dal greco antico óasis, a sua volta mutuata dall’egizio wḥ3t. Fin dall’antichità, le oasi sono state nodi vitali di sosta, commercio e sopravvivenza lungo le vie carovaniere del Nord Africa e del Vicino Oriente.
Le oasi non erano semplici pozze d’acqua tra le dune. Erano sistemi complessi, capaci di sostenere l’agricoltura in condizioni estreme, spesso attraverso tecnologie avanzate come i qanat (canali sotterranei di origine persiana), i pozzi a gradini o le cisterne. All’interno di queste aree fertili, le popolazioni coltivavano palme da dattero, cereali, legumi, viti, e allevavano animali, generando surplus agricolo in grado di sostenere anche élite politiche e religiose.
Questa ricchezza ha spesso trasformato le oasi in oggetto di contesa. Nella storia documentata, le guerre per il controllo delle oasi sono ricorrenti. L’oasi di Dumat al-Jandal, ad esempio, fu più volte attaccata in epoca preislamica, essendo crocevia tra l’Iraq, la Siria e l’Arabia interna. Le tribù arabe combattevano per appropriarsi delle sue acque e dei raccolti. Allo stesso modo, l’oasi di Kharga in Egitto fu fortificata dai Romani per proteggere il traffico carovaniero attraverso il Deserto Occidentale.
Nel Sahara, le oasi di Ghadames, Siwa, Timbuctù e Zawila furono centri strategici per il commercio transahariano dell’oro e degli schiavi. Chi possedeva un’oasi, controllava l’acqua, le rotte e le persone. L’Islam primitivo stesso si espanse lungo gli assi delle oasi, che diventarono baluardi spirituali e militari.
La guerra per le oasi, quindi, non era solo militare: era una lotta per il controllo di risorse limitate e vitali in un ambiente estremo. Le mura di cui parlano le recenti scoperte in Arabia non proteggono solo dei campi: proteggono un intero ordine socio-politico basato sulla gestione collettiva dell’acqua.
Ancora oggi, molte oasi antiche sono abitate o coltivate. Alcune, come quelle di al-Ula o Siwa, sono diventate siti archeologici e turistici; altre, come Anaizah, sono state inglobate nell’espansione urbana. Ma tutte raccontano una stessa storia: quella dell’ingegno umano che resiste alla sabbia con acqua, pietra e comunità.
Le domande ancora aperte
Come si mobilitavano le comunità? E cosa causò il declino finale?
Gli studiosi riconoscono che molte incognite restano. Chi coordinava i lavori? Come si decideva la gestione delle acque? Che ruolo ebbero i cambiamenti climatici e le siccità nel lento abbandono di questo sistema?
La varietà architettonica e strategica delle oasi suggerisce una pluralità di risposte. Ma una cosa è certa: questa rete millenaria mostra come l’ingegno umano possa modellare anche gli ambienti più estremi, trasformando il deserto in civiltà.
Fonti e approfondimenti
- Charloux G, Alonazi M. The Walled Oases Complex in north-west Arabia: evidence for a long-term settlement model in the desert, Antiquity, 2025, pp. 1–9. DOI: 10.15184/aqy.2025.10125