
Paulina. Il cercatore, dopo aver ripulito tra indice e pollice la moneta appena portata alla luce, l’ha rigirata.
Il personaggio è femminile. Osserviamo con la massima attenzione. Da un lato il volto dell’imperatrice divinizzata, di profilo, con il velo delle vestali e la scritta “Diva Paulina”; sull’altra faccia della moneta è rappresentata la donna che assurge al cielo, sul dorso di un pavone. Attorno, la parola Consacratio – consacrazione – e, al centro, la sigla S C, Senatus Consultum. Una sigla che ricorda come la moneta fu emessa per volontà del Senato, che probabilmente approvò anche la consacrazione stessa, la divinizzazione dell’imperatrice.
Il cercatore, Ben Alpha, è soddisfatto del ritrovamento. La moneta è in ottime condizioni.
Una moneta per l’eternità
L’apoteosi di Paulina e il culto imperiale tra cielo e terra
La moneta è piccola, eppure gravita attorno a essa il peso di un’ideologia imperiale, il culto di una dinastia, la memoria che si fa materia. È un sesterzio, probabilmente coniato a Roma tra il 236 e il 237 d.C., dopo la morte di Cecilia Paulina, moglie dell’imperatore Massimino il Trace. Un rovescio inconfondibile: una figura femminile avvolta in veli, trasportata in cielo su un grande pavone, le ali spiegate. È il momento dell’assunzione in cielo dell’Augusta, l’apotheosis, un’immagine solenne e toccante che i Romani riservavano ai membri della famiglia imperiale divinizzati dopo la morte.
Diva Paulina
Un nome cancellato, un ricordo restituito dal bronzo
Cecilia Paulina fu Augusta per pochi anni, e la sua figura resta immersa in una nebbia d’oblio. Non la nominano gli storici antichi, e la damnatio memoriae, che colpì la sua famiglia dopo la morte di Massimino, contribuì a cancellarne ogni traccia. Ma la moneta no. Il metallo sfugge spesso alle damnatio. Sulle emissioni postume leggiamo ancora “Diva Paulina”, titolo che le fu attribuito dopo la morte dal marito stesso, che ottenne per lei la divinizzazione. Un gesto che ci parla di un legame forte, forse genuino, forse solo strumento politico. Ma lasciamo parlare il conio: a sinistra, il volto velato, a destra, il volo eterno.
L’ascesa sul pavone
Il simbolismo celeste di una regina come Giunone
L’immagine della donna che ascende al cielo sul dorso di un pavone è una delle più iconiche dell’iconografia imperiale. Non è casuale la scelta dell’animale. Il pavone era il sacro compagno di Giunone, la regina degli dèi. Secondo il mito, Giunone aveva ornato le sue piume con gli occhi del gigante Argo, simbolo della vigilanza e della maestà. Così, l’Augusta viene assimilata alla dea: come Giunone, Paulina assume le caratteristiche della regalità, della protezione coniugale, della bellezza. La moneta diventa messaggio teologico-politico: Paulina non è più solo una donna, ma una figura cosmica, mediatrice tra la terra e il cielo, sposa fedele e figura materna della patria.
Un’aureola senatoriale
S C: quando il Senato legittima il volo verso l’eternità
Al centro del rovescio campeggia la sigla S C, Senatus Consultum: si tratta di un dettaglio tutt’altro che formale. Significa che fu il Senato romano a decretare la coniazione della moneta. In un’epoca in cui la legittimità imperiale si costruiva anche grazie al supporto del potere senatorio, l’approvazione del Senato sanciva ufficialmente il culto pubblico della defunta Augusta. La moneta, dunque, non è solo una testimonianza del lutto di un marito, ma un atto pubblico, una legge incisa nel metallo, che trasforma la memoria in eternità.
Paolina tra storia e leggenda
Una donna di cui non resta che una silhouette
Gli storici tacciono su Paolina. Neanche il suo nome compare nei resoconti classici. Ci arriva solo in alcune iscrizioni frammentarie, tra cui quella che recita: Diva Caecilia Paulina Pia Augusta. Secondo quanto tramandato da Giovanni Zonara, Massimino l’avrebbe fatta giustiziare. Ma la notizia è contraddetta dal fatto che fu lo stesso imperatore a volerne la divinizzazione, e che, almeno apparentemente, le fu legato da un sincero affetto. Lo storico Ammiano Marcellino, nel libro perduto dedicato ai Gordiani, la cita come donna saggia, che avrebbe cercato di addolcire il carattere crudele del marito. Una figura evanescente, ma che sembra possedere il tratto di un’intelligenza affettuosa, di una nobiltà interiore che la morte non spense.
L’eco di Anazarbus
Una testimonianza greca per una diva latina
Un indizio importante sulla morte e sulla divinizzazione di Paolina arriva da Anazarbus, città della Cilicia (nell’odierna Turchia). Qui furono coniate monete con la legenda greca Thea Paulina, “la divina Paulina”, datate al 254° anno della città, cioè al 235/236 d.C. Si tratta di una delle pochissime prove epigrafiche che confermano l’assunzione celeste dell’imperatrice. Anche in questo caso, la memoria di Paolina viaggia per vie laterali, quasi clandestine, affidata più all’arte del conio che alla penna degli storici.
Come le imperatrici e le donne della domus Augusta divennero dee: riti, propaganda, iconografia e memoria eterna
Nel cuore della religione imperiale romana, accanto alla figura imponente dell’imperatore divinizzato, si colloca un fenomeno che, pur meno evidente nei manuali, ebbe un profondo impatto simbolico e politico: la consecratio delle donne della casa imperiale. Si trattava della solenne divinizzazione postuma di madri, mogli, figlie e sorelle degli imperatori, attraverso un processo pubblico, rituale e iconografico che trasformava la loro memoria in culto.
Nell’Urbe dominata dal mos maiorum, la divinizzazione femminile rappresentava uno strumento potente per legittimare la dinastia, consolidare il consenso e dare un volto idealizzato alla virtus femminile romana. Ma come avveniva la sacralizzazione? Chi decideva? E quale fu il destino postumo di queste “dee imperiali”?
L’architettura del rito
La consecratio come atto pubblico, politico e religioso
Il processo di consecratio non era automatico, ma doveva essere autorizzato dal Senato. Dopo la morte della donna imperiale, si apriva un iter ufficiale che ricalcava in parte quello previsto per gli imperatori. Il momento centrale era una cerimonia pubblica che si concludeva con la apotheosis, l’assunzione celeste dell’anima della defunta.
Nel rituale standardizzato (a partire dalla divinizzazione di Augusto e poi di Livia), si erigeva una pira funebre monumentale, detta ustrinum, sulla quale si bruciava il corpo della defunta. Il momento culminante era l’apparizione (fittizia o scenografica) di un’aquila che, librandosi in cielo tra i vapori dell’incendio, simboleggiava l’ascesa dell’anima verso il pantheon degli dei. A quel punto, il Senato proclamava la defunta diva, ossia “divina”, e ne autorizzava il culto.
I simboli della memoria
Templi, sacerdotesse, altari e monete: il culto delle divae
Una volta divinizzata, la donna imperiale riceveva gli onori divini. Il suo culto veniva celebrato con rituali pubblici, anche se non con la stessa intensità riservata agli dei tradizionali. Spesso veniva eretto un tempio in suo onore — ad esempio, il celebre Templum Divae Faustinae nel Foro, dedicato a Faustina maggiore, moglie di Antonino Pio — e si istituivano sacerdotesse dedicate, spesso appartenenti all’aristocrazia senatoria o equestre.
Le divae potevano ricevere offerte, venivano commemorate in date fisse del calendario imperiale e la loro immagine era diffusa attraverso le emissioni monetali, che costituivano lo strumento più capillare di propaganda. Le legende monetarie come DIVA AVGUSTA o DIVA FAVSTINA identificavano le donne già divinizzate, mentre i tipi iconografici — aquile, pigne, colonne, stelle, fiaccole — comunicavano il passaggio al divino.
Tra affetti e politica
Perché divinizzare una donna imperiale?
La consecratio aveva diverse funzioni, tutte intrecciate tra loro:
- Funzione dinastica: sacralizzando una madre, una moglie o una figlia dell’imperatore, si dava un’aura divina alla discendenza e alla casa regnante.
- Funzione morale: le divae rappresentavano un modello ideale di pietas, pudicitia e dedizione alla res publica. Erano le “matrone perfette” proiettate nel cielo.
- Funzione propagandistica: la divinizzazione veniva spesso decisa anche per rafforzare la figura dell’imperatore stesso, mostrando la sua virtus anche attraverso la devozione familiare.
Le protagoniste dell’eternità
Chi furono le donne divinizzate? Un pantheon di imperatrici
L’elenco delle donne che ricevettero la consecratio non è breve, e riflette il mutare delle strategie politiche da dinastia a dinastia. Tra le figure principali, si ricordano:
- Livia Drusilla (Diva Augusta), moglie di Augusto. Divinizzata da suo nipote Claudio nel 42 d.C., dopo un lungo rifiuto da parte di Tiberio.
- Antonia Minore, madre di Claudio, anch’essa divinizzata da suo figlio.
- Poppea Sabina, seconda moglie di Nerone, la cui divinizzazione è controversa e testimoniata in forma privata.
- Plotina, moglie di Traiano, nota per la sua sobrietà e virtù, fu divinizzata postuma da Adriano.
- Matidia, nipote di Traiano, anch’essa deificata.
- Faustina Maggiore, moglie di Antonino Pio, una delle più celebrate divae, con un culto particolarmente intenso e monete a lei dedicate per anni.
- Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio, divinizzata alla sua morte nel 175 d.C.
- Lucilla, figlia di Marco Aurelio, probabilmente mai ufficialmente divinizzata, nonostante iconografie affini.
- Crispina, moglie di Commodo, non divinizzata a causa della sua caduta in disgrazia.
- Julia Domna, moglie di Settimio Severo, celebrata e venerata in vita e divinizzata post mortem.
- Julia Maesa, sorella di Domna, e le nipoti Julia Soaemias e Julia Mamaea, con culti legati alle dinastie severiane.
- Salonina, moglie di Gallieno, la cui divinizzazione è attestata da monete.
- Helena, madre di Costantino, talvolta oggetto di venerazione ibrida tra paganesimo e cristianesimo.
- Fausta, moglie di Costantino, la cui damnatio memoriae impedì la divinizzazione.
Divinità senza Olimpo
Una sacralità “seconda” ma potente
Le divae non furono mai completamente equiparate agli dèi tradizionali del pantheon, ma acquisirono un’importanza cruciale nella costruzione del sacro imperiale. Erano figure liminari, ponte tra la religione civica, l’affettività domestica e la propaganda imperiale. Il loro culto, controllato dallo Stato, restava sempre funzionale al potere: non esprimeva una genuina apoteosi individuale, ma un meccanismo collettivo di legittimazione.
Il culto delle divae dopo l’Impero
Una lunga memoria iconografica, una rapida eclisse cultuale
Con l’affermarsi del cristianesimo e la crisi dei culti imperiali pagani, le divae scomparvero rapidamente dal panorama religioso ufficiale. Tuttavia, la loro iconografia sopravvisse a lungo. La figura dell’imperatrice deificata influenzò persino le prime immagini mariane bizantine, e la simbologia dell’aquila, della stella, dell’ascesa celeste entrò nella grammatica dell’ascensione cristiana.
Le divae romane rimasero nei marmi, nelle monete, nelle iscrizioni: non più oggetto di culto, ma epifania di un potere che si voleva eterno.