Una ceramica gallica raffinata riaffiora accanto alle antiche terme: simboli di benessere, mitologia e desiderio nel cuore della Britannia imperiale
Il caldo di un’estate britannica che sa di fango e leggenda. Il cuore di Carlisle – cittadina del Cumbria – pulsa ancora sotto terra, e la sua pelle, scavata con pazienza dagli archeologi, comincia a raccontare. Poche ore fa, nel corso delle indagini condotte nel centro romano della città, a poca distanza dalle antiche terme, è riemerso un ampio frammento di ceramica sigillata, arancio intenso come la luce che il sole, filtrando, lascia su una tunica di lino.

Ma non si tratta di una semplice stoviglia. Sul frammento affiorano delfini guizzanti, un ippocampo mitologico e un’imbarcazione arcuata fatta di giunchi intrecciati. Sopra l’imbarcazione – simile alle barche sacre raffigurate nei templi egizi – tre figure umane si stagliano. Si muovono? Celebrano? La scena è sospesa tra realtà e simbolo. Tra ciò che si vede e ciò che si sogna. E’ il sogno. Mare, cielo, sole, Nilo, creature incantate e benigne, delfini che difendono gli uomini e li sostentano. Forse un accesso anche alle divinità della luce, quelle egizie. Un mondo multicolore, come un grande parco egizio per ricchi che si arricchiscono senza fare nulla e per tutti gli altri che possono sperare nel benessere del boom. “La pittura nilotica” – dice Bernardelli Curuz – ha caratteristiche simili all’arte pop degli anni del nostro boom economico. Quantità, colori, ricchezza, merci, bendidio, parchi, bestie feroci e non, bistecche e pavoni, sogno realizzabile, attività onirica da inseguire”.
Un’immagine che incanta
Delfini, ippocampi e barche nilotiche: un bestiario acquatico pieno di desiderio e fortuna

L’iconografia emersa a Carlisle sorprende per complessità e qualità. Gli archeologi parlano di ceramica sigillata di produzione gallica, databile alla fine del II secolo d.C.: uno dei momenti d’oro del gusto ornamentale provinciale, in cui i motivi ellenistici, orientali e africani si fondevano in un’arte della sorpresa.
Sulla superficie del frammento – probabilmente parte di un grande piatto o di una coppa da vino – si riconoscono delfini in rilievo, con le pinne tese e le code sollevate, come se saltassero da un’onda invisibile. Al centro, quasi a dominare la scena marina, un ippocampo, il leggendario cavallo del mare, metà destriero, metà pesce. E poco più in là, a destra, una strana barca arcuata, trionfale, fatta di giunchi intrecciati, somigliante alle barche rituali egizie o ai natanti del Nilo in epoca tolemaica.
Sopra quell’imbarcazione tre figure umane: forse due uomini e una donna? I copricapo sembrano proprio quelli solenni dei vertici dello stato egizio, divenuto, per i romani un misterioso, ricco folklore. Restava la favolosa terra, piena di ricchezze, dominata dai romani. I volti sono consumati, ma le pose suggeriscono azione e racconto. Forse una processione sacra. Forse un’allusione simbolica al viaggio ultraterreno. In ogni caso, un viaggio tra i desideri profondi del mondo romano.
Il sogno dell’Egitto in Britannia
Il topos nilotico: una visione di abbondanza, fertilità e lusso esotico
La presenza di questa scena a Carlisle non è un caso isolato. Dalla fine del I secolo d.C., il mondo romano aveva coltivato una vera e propria passione per l’immaginario nilotico, associato all’abbondanza, al mistero e al piacere. L’Egitto, dopo la conquista di Augusto, diventò non solo granaio dell’Impero, ma anche proiezione del desiderio: luogo dell’ignoto, della bellezza animale, delle danze rituali, dei banchetti lungo il Nilo.
In pittura, mosaico e ceramica, scene nilotiche affollate di coccodrilli, ippopotami, ibis, barche di giunco e sacerdoti fluttuanti si diffusero ovunque: da Pompei fino alle province più remote. Il bacino del Rodano e della Gallia meridionale, da cui proviene probabilmente il piatto di Carlisle, fu uno dei centri più attivi nella trasformazione iconografica di questo repertorio. Gli artigiani della sigillata sapevano fondere il realismo romano con l’esotismo egiziano, creando oggetti che erano insieme stoviglie e storie, decorazione e amuleto.
I delfini nell’immaginario romano
Simboli di salvezza, guida dell’anima e giochi marini tra mito e speranza
Nel ricco immaginario simbolico romano, il delfino appare come una creatura luminosa e benefica, ponte tra la vita e la morte, tra le onde e l’aldilà. Presenza frequente nei mosaici delle terme, nelle decorazioni domestiche, nei sarcofagi e nelle sculture funerarie, il delfino era considerato un psychopompos, cioè un accompagnatore delle anime, ma con una valenza affettuosa e rassicurante, mai minacciosa.
Non è un caso che nelle necropoli romane — come ad esempio quella di Isola Sacra, presso Ostia — il delfino compaia accanto a figure di fanciulli defunti, come guida verso un’eternità serena.
Nella Naturalis Historia (IX, 8-12), Plinio il Vecchio dedica varie pagine al comportamento straordinariamente affabile dei delfini, raccontando, tra l’altro, la celebre storia del delfino che, nel Golfo di Baia, instaurò una relazione amichevole con un ragazzo, portandolo ogni giorno sulle sue spalle da un villaggio all’altro. Episodi simili compaiono anche in Eliano (De natura animalium, VI, 15), dove si sottolinea la straordinaria intelligenza e benevolenza dell’animale. Sono racconti che fondono osservazione naturalistica e tenerezza, proiettando il delfino nella sfera dei simboli amati e confortanti.
In ambito mitologico, il delfino è legato ad Apollo, il quale, secondo l’Inno omerico a lui dedicato, prese la forma di un delfino per guidare dei navigatori verso il sito sacro di Delfi (che da ciò prenderebbe il nome). Anche Afrodite, nata dalla spuma del mare, è spesso raffigurata in trionfo marino scortata da delfini danzanti, come nei bassorilievi delle villae costiere del Golfo di Napoli, evocando sensualità e armonia.
Il delfino è dunque, nell’orizzonte romano, molto più di un animale: è un messaggero di bellezza, di affetto e di passaggio sereno, che trasforma l’ignoto in promessa.
La ceramica sigillata: lusso da toccare
Colore, smalto e rilievi raffinati: il prestigio sociale in una coppa arancione
La ceramica sigillata (detta anche terra sigillata, dal latino sigillum, “sigillo decorato”) era la porcellana dell’antica Roma: una ceramica fine, a pasta chiara, rivestita di un rivestimento vetrificato sottile e lucente, ottenuto da una miscela di argilla fine e ossidi ferrici, cotta in ambiente riducente.
I colori variavano dal rosso vivo al corallo intenso. Gli oggetti – piatti, coppe, ciotole – erano spesso decorati a stampo con figure in rilievo: scene mitologiche, animali, giochi gladiatori, motivi vegetali e, come in questo caso, interi paesaggi figurati.
Possedere un piatto in sigillata significava appartenere a un’élite urbana: questi oggetti venivano esibiti nei banchetti e costituivano uno status symbol raffinato. Nella Britannia romana, dove il clima era grigio e le ville spesso modeste, una ceramica lucida e brillante evocava il calore del Sud, l’abbondanza dell’Egitto, la fortuna dei padroni di casa.
Un edificio del benessere
Il ritrovamento avviene accanto alle terme: luogo di socialità, salute e piacere
L’area di Carlisle in cui il frammento è emerso si trova nei pressi di un grande edificio romano adiacente alle terme. Gli archeologi ipotizzano si trattasse di uno spazio di incontro, forse un’insula residenziale con funzioni semi-pubbliche, legate al commercio, alla cura del corpo e alla vita sociale.
Il fatto che una ceramica tanto ricca e raffinata vi sia stata trovata conferma l’alto livello culturale della colonia romana locale. Questo non era un avamposto militare qualunque. Era un crocevia di gusti, idee e desideri, dove anche i simboli egizi potevano apparire sulle tavole come segno di fortuna, fertilità, dominio sul mondo.
La barca arcuata: indizio egizio?
Tra giunchi, simboli e processioni divine: il mistero dell’imbarcazione curva
L’elemento più enigmatico dell’intera composizione resta quella barca arcuata, dalle estremità ricurve verso l’alto, come un arco fluttuante. La sua struttura e l’uso iconografico ricordano da vicino le imbarcazioni sacre egizie, spesso costruite in fusti di papiro intrecciati, usate per cerimonie fluviali lungo il Nilo e raffigurate nei rilievi funerari del Medio e Nuovo Regno.
In epoca romana, tali barche divennero simbolo del viaggio nell’aldilà, ma anche della traslazione cerimoniale di Iside e Osiride. La loro forma arcuata, accentuata, aveva un potere evocativo: sembrava cullare i corpi e le anime, portandoli dal mondo reale a quello simbolico. La presenza, a Carlisle, di un simile riferimento, rafforza l’idea che la scena non fosse solo decorativa, ma carica di un valore spirituale e augurale.
Il cuore segreto della ceramica
Oggetto, immaginario e desiderio: come una tavola poteva raccontare l’universo
In questo frammento riaffiorato dalla terra inglese c’è molto più che un’immagine decorativa. C’è una visione del mondo, un sogno di abbondanza, una nostalgia dell’Egitto mitico e assolato, un desiderio di bellezza e di eternità.
Un oggetto simile parlava al tatto e alla vista. Raccontava una storia. Condiva un pasto. E parlava di luce, d’acqua e di felicità a chi, nella Britannia piovosa, cercava ancora il calore del Nilo.