Per noi sono personaggi letterari, cantati in un periodo di contestazioni al mondo immobile del passato. In realtà erano furfanti senza scrupoli. Banditi che cercavano di proteggersi in tutti i modi. Anche attraverso la sollecitazione di protezioni superiori. Ora i sub stanno esplorando il carico di una di quelle navi maledette.

Nel cuore turchese dell’Oceano Indiano, fra le pieghe sabbiose e le radici di mangrovie dell’isola di Sainte-Marie – l’antica Santa Maria, rifugio prediletto dei pirati tra Seicento e Settecento – il mare ha restituito – sabato della scorsa settimana – qualcosa di più di un semplice oggetto. Nelle scorse ore, durante un’immersione guidata da archeologi e appassionati esploratori locali, è affiorata dalle acque una piccola, sorprendente figura scolpita: una statuetta in avorio raffigurante Sant’Antonio di Padova, il santo taumaturgo, con in braccio il Bambino e lo sguardo assorto, rivolto al cielo.
Il ritrovamento, avvenuto in prossimità del relitto di un’imbarcazione ligneo, incrostato di coralli e ormai confuso con il fondale, solleva interrogativi inattesi: cosa ci faceva un oggetto devozionale cristiano – tanto delicato quanto prezioso – su una nave pirata? E perché proprio Sant’Antonio, il frate francescano noto per i suoi miracoli e per la sua predicazione contro l’avarizia e la cupidigia?
Un’isola leggendaria: il rifugio dei corsari
Sainte-Marie, oggi parte del Madagascar, nel XVII e XVIII secolo era tutt’altro che una tranquilla isola tropicale. Collocata su una rotta strategica tra il Capo di Buona Speranza, l’India e il Sud-Est asiatico, divenne una meta prediletta per i pirati che assaltavano navi cariche di seta, spezie, oro e argento.
Tra coloro che vi trovarono riparo – e forse anche una parvenza di quiete – ci furono nomi impressi nella leggenda: Thomas Tew, William Kidd, e Olivier Levasseur, noto come La Buse, il cui tesoro, si racconta, sarebbe stato nascosto proprio in queste acque e ancora oggi non è stato rinvenuto.
A Sainte-Marie, questi uomini, corsari spesso condannati dalla legge ma idolatrati da cronache e folclore, riparavano le proprie navi, si dividevano i bottini, fondavano colonie semi-clandestine. A un certo punto si calcola che più di un migliaio di pirati vivessero sull’isola, dando vita a una delle prime “repubbliche libertarie” della storia.
Una devozione inattesa: Sant’Antonio tra i filibustieri
Il rinvenimento della statuetta di Sant’Antonio, probabilmente realizzata nelle colonie portoghesi dell’Asia – Goa o Macao – in pregiato avorio lavorato, apre uno spiraglio su una dimensione spesso trascurata della vita corsara: la dimensione spirituale.
Se è vero che i pirati erano uomini abituati alla violenza, all’alcol e alla legge del più forte, è altrettanto vero che molti di loro non rinunciavano a forme di religiosità. Le biografie di diversi capitani riportano l’abitudine a portare con sé amuleti, croci, reliquie e immagini sacre, non solo per superstizione, ma anche per reale devozione. I santi, in particolare, erano percepiti come intercessori contro la morte improvvisa, la tempesta, il naufragio o le malattie tropicali.
Sant’Antonio, in questo quadro, era una figura molto amata. Protettore dei poveri e degli smarriti – e quindi perfetto per chi viveva di saccheggi e latitanze – era anche un santo taumaturgo, invocato per ritrovare oggetti perduti. Un’ironia sottile se si pensa che i pirati facevano del furto la propria ragione di vita.
Ma non va sottovalutato un ulteriore aspetto: molti corsari erano di origine iberica o franco-portoghese, e avevano assorbito una cultura cattolica radicata, che non veniva abbandonata del tutto nemmeno in mare. In alcune cronache si legge che i marinai partecipavano a messe clandestine, e che alcuni capitani si facevano accompagnare da sacerdoti o laici devoti.
Un oggetto di devozione… o di bottino?
Un’altra pista interpretativa, tutt’altro che trascurabile, riguarda la provenienza della statuetta. Potrebbe trattarsi non di un oggetto di fede personale, ma piuttosto di un bottino di valore, trafugato durante il saccheggio di una nave portoghese o di una colonia cristiana. L’avorio, materiale lussuoso, era spesso oggetto di commercio e contrabbando; se intagliato in forma sacra, acquisiva anche un valore simbolico, oltre che economico.
Tuttavia, le modalità del ritrovamento – la posizione della statuetta in un punto protetto dello scafo, come se fosse stata custodita – lasciano pensare che non si trattasse di semplice merce. La cura nella realizzazione, la patina d’uso e la postura delle mani del santo, ancora visibile nonostante l’erosione marina, parlano di un oggetto vissuto, toccato, forse pregato.
Ipotesi e prossimi studi
Il reperto, ora trasferito in un laboratorio di conservazione presso la capitale del Madagascar, sarà sottoposto a una serie di analisi al radiocarbonio e allo studio comparativo con altre statue simili conservate nei musei europei. Gli studiosi sono già al lavoro per stabilire l’origine esatta del manufatto, ma anche per comprendere quale imbarcazione possa averlo custodito: si ipotizza una nave legata alla flotta di La Buse, affondata tra il 1720 e il 1730.
Parallelamente, gli archeologi stanno conducendo nuovi sopralluoghi intorno al relitto, nella speranza di trovare altri oggetti connessi alla vita quotidiana dei pirati. Già affiorano frammenti di ceramica, chiodi forgiati e una fibbia in bronzo, forse parte dell’abbigliamento di un ufficiale.
Olivier Levasseur, detto La Buse – ovvero “La Poiana” – è una delle figure più enigmatiche e affascinanti della pirateria del primo Settecento. Nato attorno al 1680, probabilmente a Calais, in Francia, La Buse è passato alla storia non solo per le sue imprese corsare nell’Oceano Indiano, ma soprattutto per il misterioso tesoro che, secondo la leggenda, avrebbe nascosto prima della sua esecuzione.
Dalla marina reale alla pirateria
Levasseur era inizialmente un ufficiale della marina francese, probabilmente un corsaro al soldo del Re durante la Guerra di Successione Spagnola. Ma con la pace e la fine delle guerre europee, come molti altri marinai addestrati e senza impiego, scelse di diventare pirata. Verso il 1716 si unì a una delle tante compagnie corsare che operavano nei Caraibi, e poco dopo si diresse verso l’Oceano Indiano, all’epoca ricchissimo di prede commerciali.
Il colpo della Virgine del Capo
Il momento più celebre della sua carriera fu l’assalto alla nave portoghese Nossa Senhora do Cabo (Nostra Signora del Capo), avvenuto nel 1721 al largo dell’isola di Réunion. La nave trasportava, oltre a funzionari dell’Impero Portoghese, un carico immenso di tesori: oro, argento, diamanti, perle, sete, reliquie sacre e statue religiose.
Il bottino, secondo le cronache dell’epoca, superava i 4 milioni di livre in valore, una somma vertiginosa per il tempo. Quel colpo trasformò La Buse in una leggenda vivente, ma anche nel bersaglio principale delle potenze coloniali, francesi e britanniche.
L’ultima base a Sainte-Marie
Dopo il colpo, Levasseur si rifugiò a Île Sainte-Marie, l’isola dei pirati al largo del Madagascar, già allora rifugio di corsari famosi come William Kidd e Thomas Tew. Qui si racconta che abbia smistato e nascosto parte del tesoro, affidandolo a luoghi sicuri o seppellendolo, forse con l’aiuto di indigeni malgasci o marinai fidati.
Negli anni successivi, visse con identità false e cercò, secondo alcuni, di ottenere la grazia dalla Francia. Fu però catturato a Mahé, nelle Seychelles, consegnato alle autorità francesi e infine impiccato nel 1730 a Saint-Denis, sull’isola di Réunion.
Il mito del messaggio cifrato
La leggenda più celebre riguarda le sue ultime parole prima dell’impiccagione. Si dice che, con una teatralità degna di un personaggio letterario, abbia gettato alla folla un criptogramma: un foglio pieno di segni, lettere e simboli, che – a suo dire – avrebbe indicato la posizione del suo tesoro nascosto.
Il cosiddetto Codice di La Buse, ancora oggi oggetto di studi, speculazioni e romanzi, ha affascinato generazioni di cacciatori di tesori. Alcuni hanno passato la vita intera a decifrare quel presunto messaggio, convinti che il favoloso bottino giaccia ancora sepolto su qualche spiaggia del Madagascar, in una grotta o sotto un albero, forse protetto da trappole e segnali segreti.
La Buse oggi: tra storia e leggenda
La figura di Olivier Levasseur si muove al confine tra storia documentata e mito. I documenti d’archivio attestano con chiarezza le sue azioni, i colpi messi a segno e la condanna; ma il resto – il tesoro, la mappa cifrata, i simboli massonici – è diventato materia di leggenda popolare.
A Sainte-Marie e in varie località del Madagascar, il suo nome riecheggia nei racconti dei pescatori, nei libri per turisti, nei percorsi archeologici. Anche la scoperta recente della statuetta di Sant’Antonio potrebbe, in un curioso cortocircuito storico, essere collegata al suo tempo: forse appartenente proprio a uno dei bottini di La Buse o a qualche devoto compagno di ventura.
Il suo è il classico volto ambiguo del pirata: brutale e affascinante, blasfemo ma superstizioso, razziatore e forse, in fondo, anche sognatore.