Parità. Parità nell’amore e nella vita. E’ sconvolgente, nella dolcezza, l’ultimo dipinto attribuito ad Artemisia Gentileschi, la pittrice del Seicento che sviluppò un linguaggio fortemente teso all’emancipazione femminile. E fu tale, autentica. Non frutto di un pensiero critico che noi possiamo oggi esercitare, orientato al “politicamente corretto”, ma di un’osservazione acuta, profonda, straordinariamente espressiva svolta dall’autrice seicentesca. Sorprende anche in questa questa tela – che abbiamo sottoposto ad analisi iconografica – Artemisia.

Il soggetto è “Ercole e Onfale”. I due sono colti dalla pittrice nel momento in cui si innamorano. Non dovrebbero innamorarsi. Ercole, per espiare l’uccisione di Ifito, fu infatti costretto dall’oracolo di Delfi a servire come schiavo per tre anni. La sua padrona fu Onfale, regina della Lidia, che, secondo i testi classici, invertì i ruoli: lei impugnava la clava e indossava la pelle del leone, lui vestiva abiti femminili e filava la lana. L’episodio, tra i più curiosi della mitologia, mostra in moltissimi casi l’eroe umiliato, sottomesso, grottesco. Forse l’iconografia tradizionale assecondava tendenze masochiste, nei collezionisti. In parte questo episodio appariva anche un comico ribaltamento dei ruoli, che colpiva la diversità. Ma Artemisia Gentileschi va ben oltre i luoghi comuni.
“Artemisia gioca il mito in modo diverso. – dice Maurizio Bernardelli Curuz – Artemisia non umilia il maschio. Ercole non appare, in quest’opera, effeminato o abbattuto per il lavoro di filatura. Lo ricordiamo, ad esempio, in Dosso Dossi, come una figura grottesca, derisa dai cortigiani per una sorta di inversione del genere, in una splendida atmosfera carnevalesca”.


“E’ invece, nell’opera della Gentileschi, – prosegue Bernardelli Curuz – un giovane dal volto sereno, dal corpo atletico, che potrebbe affrontare un leone o filare, finemente, senza vergogna. Onfale non rimane estasiata soltanto da quel volto o dai bicipiti possenti. Ma dall’atto della filatura, che Ercole affronta con una serenità apollinea, con precisione e, al tempo stesso, come se scoccasse una freccia. Lei sembra cedere per quel sovrappiù di dolcezza. Un uomo che resta uomo anche se fila. Onfale ed Ercole sono in una bolla magica, in un cerchio in cui si consuma il reciproco incantamento. Artemisia Gentileschi inscrive le due figure proprio in questo cerchio – che abbiamo evidenziato, qui sotto -“.

“Un cerchio che evoca una sfera magica all’interno della quale i personaggi possono rotolare. – prosegue il critico – La seduzione è reciproca. Artemisia riesce a creare, sul volto della donna, lo sconcerto, la paura, una resistenza fittizia all’amore incipiente che sembrano originati, come forza irresistibile, da quell’uomo che resta uomo pur svolgendo un lavoro femminile. D’altro canto Ercole seduce Onfale. Il loro è un rapporto che diviene paritario”.

Perché Artemisia eseguiva questi soggetti? “Siamo anche all’interno di un preciso filone di mercato. Questo non possiamo dimenticarlo – dice Bernardelli Curuz – Il filone è quello di quadri che ci invitano a ‘non perdere la testa per amore’, che troviamo anche nella pittura romana classica e nel Rinascimento. Prima di Artemisia questo tema era percorso in chiave simbolica o pedagogica per dire: fate attenzione che una donna vi può far perdere la testa. Ma Artemisia brucia l’aspetto simbolico per tornare a un’aderenza profonda alla realtà. Ci dice: ci sono donne eroiche, donne che si ribellano; ci sono donne che sanno usare persino le armi; ci sono donne che vogliono amare; e l’amore è soprattutto restare entrambi sullo stesso piano, colmare le lacune, avvicinarsi con rispetto, come avviene in Ercole e Onfale. Lei modula il linguaggio sui rischi dell’amore, rilanciandolo nei termini di emancipazione, intesa come parità dei diritti.”. “Artemisia – afferma il critico – si colloca al centro di questo flusso e lo caratterizza, secondo la propria volontà e con la propria esperienza, con la propria sensibilità, con le proprie ferite, citando anche l’esperienza dello donne-intellettuali, delle donne-pittrici, delle donne-politiche che sono cresciute tra Cinquecento e Seicento”. E non può dimenticare, pur avendo pagato duramente , di aver denunciato l’uomo che l’aveva violentata e di aver vinto la causa.
Sopravvissuto alla devastante esplosione del porto di Beirut del 2020, Ercole e Onfale è oggi al centro di una riscoperta che ha entusiasmato il mondo dell’arte. Attribuito ad Artemisia Gentileschi dallo storico libanese Gregory Buchakjian e restaurato dopo un intervento triennale al J. Paul Getty Museum, il dipinto viene finalmente restituito al pubblico nella mostra Artemisia’s Strong Women: Rescuing a Masterpiece, allestita dal 10 giugno al 14 settembre 2025 nella galleria 206 del Padiglione Est del Getty Center Museum.
L’esposizione, dedicata alle celebri figure femminili che popolano l’immaginario pittorico dell’artista, include capolavori come Betsabea e Davide del Columbus Museum of Art, Susanna e i vecchioni, Autoritratto come martire e Lucrezia, recentemente entrata nelle collezioni del Getty. Al centro, però, svetta il dipinto restaurato: un’opera carica di tensione simbolica e potenza narrativa, che rappresenta il mito di Ercole soggiogato dalla regina Onfale, costretto a filare la lana mentre lei impugna i suoi attributi eroici – la pelle del leone di Nemea e la clava.
Con ruoli di genere sovvertiti e una rappresentazione sensuale e psicologicamente sfaccettata, Ercole e Onfale si inserisce pienamente nella visione di Artemisia, dove la figura femminile è spesso protagonista attiva, consapevole e potente. La scena, animata da uno sguardo reciproco tra i due personaggi e dall’occhio complice di Cupido, diventa un manifesto della soggettività femminile in un’epoca dominata dalla pittura al maschile.
Secondo i curatori, l’opera fu probabilmente realizzata a Napoli intorno al 1630, in un periodo della vita di Artemisia spesso considerato marginale ma che la mostra si propone di rivalutare. Come sottolinea Davide Gasparotto, curatore senior del Getty, l’artista seppe adattarsi con intelligenza al mercato competitivo partenopeo, espandendo la propria produzione con ambizione e padronanza tecnica.
Il lungo restauro, guidato da Ulrich Birkmaier e realizzato in collaborazione con il Getty Conservation Institute e il restauratore Matteo Rossi Doria, ha riportato alla luce la tavolozza originale, ricostruendo aree gravemente danneggiate e svelando, grazie ai raggi X, i ripensamenti dell’artista durante il processo creativo. Un’impresa definita “uno dei progetti più impegnativi e gratificanti” della carriera di Birkmaier, paragonabile al montaggio di un puzzle perduto nella polvere e nei detriti dell’esplosione.
La mostra segna così un punto di svolta negli studi su Artemisia Gentileschi, riaffermando la sua voce femminile e la forza della sua visione in un’opera che, dietro la mitologia, nasconde una riflessione profonda su potere, identità e genere.
Artemisia Gentileschi (1593 – post 1654) fu una delle pittrici più straordinarie del Seicento italiano, capace di imporsi in un mondo dominato dagli uomini grazie a un talento impetuoso e a una volontà incrollabile. Figlia del pittore Orazio Gentileschi, fu educata nella bottega paterna, dove apprese la lezione caravaggesca: forti contrasti luministici, intensità drammatica, realismo vigoroso. A soli diciassette anni dipinse Susanna e i vecchioni, opera che già rivela una lettura profondamente personale della condizione femminile.
Nel 1611 fu coinvolta in uno dei più celebri processi dell’epoca: Artemisia denunciò Agostino Tassi, amico del padre e suo stupratore. Lui le aveva usato violenza e l’aveva anche ingannata, successivamente, circa le sue intenzioni di giungere a un’unione. Il processo fu brutale e spettacolare, culminando con la tortura della giovane per verificarne la veridicità delle accuse. Nonostante l’umiliazione, Artemisia non ritrattò e Tassi venne condannato. L’evento segnò profondamente la sua vita e influenzò la sua arte, in cui spesso le protagoniste femminili – come Giuditta, Cleopatra, Lucrezia – si ergono a simboli di forza, vendetta e autodeterminazione.
Dopo il processo, Artemisia si trasferì a Firenze, dove ottenne un successo eccezionale: fu la prima donna ammessa all’Accademia del Disegno, protetta dai Medici e in contatto con Galileo Galilei. Visse poi tra Roma, Napoli e Londra, dipingendo per mecenati prestigiosi e costruendo una carriera autonoma. Le sue tele mostrano una profonda empatia con i soggetti femminili, esprimendo rabbia, dolore, ma anche orgoglio e consapevolezza. La vita di Artemisia, segnata da traumi e conquiste, si intreccia in modo inscindibile alla sua opera, anticipando la voce delle donne artiste dei secoli successivi.
Donne ribelli, corpi resistenti: Artemisia Gentileschi e l’anticipazione del femminismo attraverso la pittura
Nel cuore del Seicento italiano, Artemisia Gentileschi fece della tela uno strumento di affermazione personale e, insieme, un’arma concettuale contro l’oppressione. In un mondo in cui le protagoniste della pittura erano solitamente oggetti dello sguardo maschile, lei le rese soggetti attivi, ribelli, capaci di scegliere, colpire, reagire. E se la parola “femminismo” non esisteva ancora, l’opera di Artemisia sembra già contenerne le tensioni, le rivendicazioni, la forza visionaria.
Susanna, non oggetto ma soggetto dello sguardo

Uno dei primi quadri di Artemisia, realizzato quando aveva appena diciassette anni, è già rivoluzionario. Susanna e i vecchioni ribalta il paradigma della pittura erotica maschile che sfruttava l’episodio biblico per mostrare corpi femminili nudi e compiacenti. Qui Susanna non è seduttiva, ma visibilmente disgustata, costretta, invasa. Il suo corpo si ritrae, il volto si contrae in un’espressione di rifiuto. La tensione muscolare, la torsione del busto, la mano alzata per proteggersi: tutto parla il linguaggio della resistenza. Non è più il corpo che invita, ma il corpo che si difende. È un grido silenzioso e potente contro la violenza e l’appropriazione.
Giuditta e la violenza della giustizia

Il capolavoro più celebre di Artemisia è senza dubbio Giuditta che decapita Oloferne. Qui la violenza non è gratuita né sadica, ma necessaria, rituale, liberatoria. La pittura non risparmia nulla: il sangue che zampilla, le mani ferme, la determinazione degli sguardi. Artemisia trasforma il tema biblico in un’arena morale, dove una donna prende in mano il proprio destino e lo impone con ferocia. Non vi è traccia di esitazione, né di compassione: solo un atto di giustizia compiuto da una donna che ha appreso a colpire per non essere più colpita.
Lucrezia: il dolore e la scelta tragica
La Lucrezia di Artemisia è una figura tragica e silenziosa. Il momento rappresentato è quello che precede il suicidio, gesto estremo di una donna romana che, dopo essere stata violata, sceglie la morte per riaffermare la propria onorabilità. Ma Artemisia non si sofferma sul corpo o sull’atto, bensì sull’intimità del conflitto interiore. Lo sguardo è smarrito, la mano stringe il pugnale con esitazione. È un dipinto che parla di mancanza di vie d’uscita, di un mondo che non prevede perdono né riparazione per una donna violata, se non attraverso l’autodistruzione. Un grido silenzioso, che denuncia l’assenza di giustizia per le donne.
Jael, eroina oscura e decisa

Anche in Jael e Sisara, Artemisia sceglie una donna come strumento della giustizia divina. Jael, figura biblica meno conosciuta, pianta un picchetto della tenda nella tempia del generale nemico mentre questi dorme, salvando il suo popolo. Artemisia la rappresenta nel momento dell’azione, con la stessa carica drammatica e la medesima determinazione che aveva conferito a Giuditta. È un’altra incarnazione della donna che agisce, che punisce, che decide. E che non aspetta un salvatore.
Autoritratto come pittura: il volto della creatività femminile
Tra le opere più intense, Autoritratto come allegoria della pittura è un manifesto d’identità artistica. Artemisia si ritrae nei panni dell’Arte stessa, secondo l’iconografia rinascimentale che identificava la Pittura con una figura femminile. Non solo si mostra all’opera, pennello alla mano, ma si pone al centro della composizione, nella piena padronanza del proprio ruolo. È un gesto fortissimo: in un’epoca in cui le donne non potevano frequentare accademie né firmare con libertà le proprie opere, lei si identifica con l’atto creativo per eccellenza. Non più musa, ma autrice. Non ispirata, ma ispiratrice.