Scoperta la “Biancaneve del deserto” con cappello piumato, formaggio e simboli fallici: chi era la giovane mummificata nello Xinjiang?
Capelli rossi, guance rosee, un cappello bianco legato sotto il mento. E accanto al petto, un oggetto fallico in legno. La giovane morta 3.800 anni fa è riemersa tra sabbia e vento nella necropoli di Xiaohe, nel bacino del Tarim. Un formaggio appoggiato sul petto, una barca funeraria rovesciata, una stoffa candida che ancora copre il corpo. Chi era davvero questa figura che ha commosso il mondo, e che oggi alimenta il racconto del potere?
Una tomba che profuma di latte e vento
Il corpo sigillato nella pelle bovina, sepolto in una barca rovesciata sotto la sabbia di Lop Nur
Nell’estremo ovest della Cina, nello Xinjiang, la regione più desertica e politicamente delicata del Paese, il ritrovamento della “Principessa di Xiaohe” ha scosso la comunità archeologica e acceso immaginari. La sua tomba a forma di barca funeraria, fu scoperta nel 2003 nel sito di Xiaohe, necropoli di epoca preistorica nel bacino del fiume Tarim. Era avvolta in pelle bovina, come dentro un bozzolo, e la perfetta conservazione del suo corpo è dovuta a un processo naturale favorito da un ambiente iper-arido e salino.
Ma l’emozione nasce non solo dallo stato del corpo, bensì da ogni oggetto scelto per accompagnarla nel viaggio.
Un viso con ciglia ancora intatte
Guance rosee, pelle liscia, e una pace che attraversa i millenni
Il volto della giovane, probabilmente morta tra i 20 e i 25 anni, è di un’intensità sorprendente. Gli zigomi alti, le labbra socchiuse, le ciglia perfettamente conservate, un ciuffo di capelli rossi che spunta dalla fronte: tutto suggerisce un’istantanea dell’umanità di 3.800 anni fa. Il naso affilato, le sopracciglia marcate e il colorito ancora visibile hanno fatto guadagnare alla donna il soprannome di “Biancaneve del deserto”, con eco fiabesche e mitiche.
Cappello con piuma e mantello bicolore
Un abito che racconta identità, desiderio e protezione
Tra gli elementi più affascinanti del corredo vi è un cappello bianco in feltro, decorato con una piuma. È legato sotto il mento e dona al volto una dolcezza infantile. La donna indossa un mantello di lana, tessuto con tecnica tabby e con combinazioni bicolore: bianco-grigio chiaro e marrone. Lunghezza: circa 1,6 x 1,2 m. Il bordo è ornato con piccole nappine decorative, a indicare un’attenzione non solo al freddo, ma anche all’eleganza rituale.
Sotto, il corpo è coperto da una gonna di corde ritorte, tecnica primitiva ma estetica, accompagnata da stivali in pelle rivestiti internamente di pelliccia: un abito completo, coerente con una cultura semi-nomade, raffinata.
Oggetti d’amore e fertilità: l’enigma del simbolo fallico
Un oggetto fallico in legno sul petto: rituale di rigenerazione o protezione erotica?
Accanto al petto, gli archeologi hanno ritrovato un oggetto fallico in legno, scolpito con precisione. Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di un simbolo votivo legato alla fertilità, alla rinascita, o alla protezione contro spiriti ostili. In un’altra interpretazione, l’oggetto costituirebbe una sorta di talismano sessuale, in linea con le altre tombe della necropoli in cui sono emerse vagine scolpite, falli e organi genitali come elementi rituali. Il tutto ci riporta a un mondo dove la spiritualità era inseparabile dal corpo.
Collana, perla, ephedra: le cure dell’aldilà
Gioielli e piante rituali per difendere, curare, amare
La ragazza indossava una collana in corda rossa e un bracciale con perla in giada, segni distintivi, forse identitari. Accanto al corpo sono stati trovati rami di Ephedra, pianta sacra e medicinale, usata ancora oggi in medicina tradizionale. Tre piccoli sacchetti con ephedra sono stati posti vicino al collo: cura per il viaggio dei morti? Offerta? Rituale protettivo?
Il cibo per l’eternità: formaggio fermentato
Grumi gialli di latte fermentato sul petto: sapore, gesto d’amore o riserva divina?
Uno degli elementi più straordinari è il formaggio di kefir trovato sul torace. Si tratta di uno dei più antichi formaggi del mondo, risalente a oltre 3.600 anni fa. È presente sotto forma di piccoli grumi gialli, appoggiati intenzionalmente sul corpo: come riserva per l’aldilà, o come simbolo di prosperità? Altri depositi caseari sono stati rilevati anche sugli stivali. Il tutto testimonia un uso avanzato della fermentazione e una concezione complessa del viaggio ultraterreno.
DNA rivoluzionario: nessuna origine europea
Genetica smentisce i miti: la bellezza non parla la lingua dei popoli migranti
Nel 2021, uno studio pubblicato su Nature ha sequenziato i genomi di 13 mummie di Xiaohe. La “Principessa” (siglata M11) non è geneticamente indoeuropea. Contrariamente alle ipotesi passate, il suo patrimonio genetico discende dagli Antichi Eurasiani del Nord, un ramo arcaico e isolato. Nessuna traccia di popoli Yamnaya o Tochari, come si ipotizzava. Il volto “occidentale” non corrisponde all’origine biologica. L’identità culturale e quella genetica non coincidono.
Una narrazione al servizio dello Stato
La mummia diventa simbolo della continuità cinese e della propaganda culturale nello Xinjiang
Il corpo della ragazza è stato esposto al Museo Regionale dello Xinjiang e impiegato in mostre internazionali fino al 2011. Ma dopo le tensioni politiche e le rivendicazioni uigure, il governo ha imposto un controllo totale sulla comunicazione archeologica. La “Principessa” è diventata simbolo della continuità culturale e genetica cinese, benché gli studi parlino di una popolazione distinta.
La sua figura, oggi, è impiegata in una narrazione che rafforza l’unità nazionale e depotenzia le spinte separatiste.
L’ambiguità del mito
Tra pietas e potere: chi possiede il corpo delle meraviglie?
La “Principessa” ci emoziona, ci commuove. Ma dietro l’immagine fiabesca, si cela una domanda cruciale: chi possiede la memoria del passato? Il corpo di Xiaohe è oggi al centro di una tensione tra storia, scienza e potere. È un reperto archeologico, una persona vissuta, un simbolo, una proprietà politica. Il suo formaggio, la sua piuma, il suo talismano erotico… raccontano un mondo perduto. Ma anche il modo in cui oggi scegliamo di
Genetica, politica e zone d’ombra: tra scienza e narrazione di potere
Il DNA che smaschera miti, il controllo statale e le ambiguità della verità
La scoperta della “Principessa di Xiaohe” ha riaperto quesiti interessanti sulla sul passato remoto dell’Asia centrale, ma anche uno scenario complesso fatto di contraddizioni, tensioni e interpretazioni politiche divergenti. Poi il Dna e le prove scientifiche. Sono sempre oggettive o possono essere disposte per ottenere determinati risultati o oscurarne altri? Esiste un’alterità vera di chi conduce le indagini? Non sembra un gran momento nemmeno per le strutture giudiziarie, figuriamoci per la storia.
Un puzzle genetico ancora aperto
Gli studi genetici pubblicati tra il 2018 e il 2021, basati sul DNA mitocondriale e nucleare, hanno smentito la convinzione iniziale che la “Biancaneve del deserto” fosse un’incarnazione di popolazioni indoeuropee (come i Tochari), evidenziando invece una discendenza da popolazioni paleo-siberiane e antiche del Nord Eurasia.
Questa scoperta ha scosso paradigmi consolidati e ha costretto gli archeologi a rivedere le teorie sulle migrazioni e i contatti culturali nel bacino del Tarim. Nonostante ciò, le caratteristiche fenotipiche – pelle chiara, capelli rossi, tratti somatici “occidentali” – hanno continuato a alimentare narrazioni divergenti, anche a fini politici.
Politica e appropriazione culturale
Nel contesto geopolitico dello Xinjiang, dove il governo centrale cinese esercita un controllo stretto sulla minoranza uigura, la “Principessa” è stata assunta a simbolo della “cineseità” storica della regione, un messaggio diretto a marginalizzare le rivendicazioni culturali e politiche degli uiguri stessi.
Il racconto ufficiale enfatizza l’unità e l’antichità del popolo cinese, ignorando o sminuendo la complessità etnica e culturale del bacino del Tarim. I media di Stato hanno spesso descritto la mummia come un “antenato cinese” per legittimare la sovranità e promuovere una narrazione di integrazione forzata.
Zone d’ombra: silenzi, limitazioni e controversie scientifiche
Il controllo governativo si è tradotto anche in limitazioni agli studi indipendenti. La pubblicazione di dati genetici completi è stata spesso ostacolata, con ritardi e restrizioni nell’accesso ai campioni. Alcuni ricercatori internazionali hanno denunciato un clima di “censura scientifica”, mentre altri sottolineano la difficoltà di operare in un’area così politicamente sensibile.
Inoltre, permangono enigmi non risolti riguardo ai rituali funerari: l’uso del formaggio fermentato, gli oggetti fallici, la simbologia del cappello piumato non sono ancora pienamente decifrati. Alcuni studiosi ipotizzano che vi siano stati elementi di una cultura ibrida, frutto di scambi fra popolazioni nomadi e sedentari, ma i dati archeologici e antropologici non sono esaustivi.
L’ombra delle narrazioni contrapposte
Il caso della “Biancaneve del deserto” è emblematico della tensione tra scienza e potere, tra ricerca storica e interesse politico. Da un lato, la volontà di raccontare un passato comune per legittimare uno Stato; dall’altro, il bisogno degli storici di mantenere autonomia critica e onestà intellettuale.
Il corpo mummificato, con la sua straordinaria presenza, rimane sospeso tra un simbolo di identità e un oggetto di contesa, un patrimonio condiviso ma anche conteso, un mistero che continua a vibrare fra scoperte e oscurità.