Sapore d’acqua e mistero nel cuore dell’Umbria: dopo anni di studi, la collezione torna dove tutto era cominciato
L’annuncio gioioso, in queste ore. Tutto sta tornando a casa. Hanno lavorato in silenzio, con pazienza, tra le vasche, i microscopi, le soluzioni distillate. Per tre anni. Nel cuore del Laboratorio di Archeologia dell’Università di Foggia (UNIFG), un’équipe multidisciplinare ha restituito vita a frammenti dimenticati, impregnati d’acqua e di tempo. Ora, quei 1020 vasi medievali, le decine di manufatti in metallo e legno – e persino un sigillo legato al re Filippo il Bello di Francia – sono pronti per tornare a Orvieto. Dove, in fondo a un pozzo, erano rimasti nascosti per secoli.
Una storia di scoperta, conservazione e ritorno, che profuma di pioggia e d’antico, e che si è fatta racconto, mostra, catalogo, documentario. Un viaggio nell’acqua che diventa tempo, e nel tempo che diventa memoria.
Il pozzo del tempo
Una fossa umida custodiva il segreto: Orvieto ha ritrovato il suo passato sommerso
Tutto inizia nel sito archeologico del Campo della Fiera, appena fuori dalle mura di Orvieto, lungo le antiche vie che un tempo portavano al Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi. Durante gli scavi diretti dalla professoressa Simonetta Stopponi, tra i molti ambienti indagati emerge un pozzo profondo. È stato usato fino al XIII secolo, poi sigillato. Dentro, uno strato compatto di argilla e sedimenti protegge una quantità sorprendente di oggetti medievali, in un equilibrio instabile ma prodigiosamente conservativo.
Il contesto è straordinario. Gli archeologi si rendono subito conto di trovarsi di fronte a un deposito eccezionale per quantità, varietà e qualità: più di mille vasi, tra anfore, boccali, brocche, contenitori per alimenti e liquidi, spesso ancora decorati; e poi oggetti in metallo – fibbie, chiodi, strumenti – e rari manufatti in legno, miracolosamente scampati alla decomposizione grazie all’ambiente saturo d’acqua.
Il lungo viaggio verso la luce
Restauro, studio, emozione: così è rinata una collezione che il mondo medievale aveva dimenticato
Per portarli in salvo e studiarli è stato necessario un delicatissimo processo di recupero. Gli oggetti, inzuppati d’acqua e fragilissimi, sono stati trasferiti con ogni cautela al Laboratorio di Archeologia dell’Università di Foggia, diretto dal professor Giuliano Volpe. Qui si è svolto un lungo lavoro di restauro e documentazione.
La sfida principale? Stabilizzare i materiali, in particolare i legni e le terre cotte impregnate d’umidità. Gli specialisti hanno impiegato metodi avanzati di disidratazione controllata, consolidamento e analisi. Ogni pezzo è stato fotografato, disegnato, catalogato, studiato. Gli archeobotanici hanno identificato le specie legnose, i chimici hanno analizzato le tracce residue. Si è riusciti così a restituire, pezzo dopo pezzo, un intero spaccato della vita quotidiana a Orvieto tra il XII e il XIII secolo.
La matrice del re
Un sigillo con il nome di Filippo il Bello accende l’immaginazione degli studiosi
Tra gli oggetti più sorprendenti emersi dal pozzo c’è una matrice di sigillo in metallo. È una lastrina ovale, incisa con grande finezza, che riporta un’iscrizione riferibile a Philippus Rex, ovvero Filippo IV il Bello, re di Francia (1268-1314). La presenza di questo oggetto a Orvieto, in un pozzo medievale, ha fatto scattare ipotesi affascinanti.
Cosa ci faceva un sigillo regale francese nel cuore dell’Umbria? Era parte di uno scambio diplomatico? O forse appartenne a un personaggio vicino alla corte papale – allora itinerante – che si trovava a Orvieto? Oppure è un falso d’uso, una copia, un oggetto devozionale? Gli studiosi stanno ancora cercando risposte, ma intanto la matrice si impone come emblema del ritrovamento.
Un patrimonio che parla
Ogni vaso, ogni chiodo, ogni frammento racconta la vita quotidiana, i commerci, i gesti di fede e lavoro
Le analisi tipologiche e funzionali dei reperti permettono ora di costruire una mappa dettagliata della vita medievale a Orvieto. Molti contenitori erano destinati alla conservazione dei cibi; altri venivano usati per cucinare, per bere, per trasportare liquidi. Alcuni presentano motivi decorativi che testimoniano scambi culturali e influssi stilistici dal nord Italia, dalla Francia, dal mondo arabo-normanno.
Gli oggetti in metallo mostrano una varietà funzionale sorprendente: utensili, piccoli arnesi agricoli, elementi di bardatura. I legni – tra cui frammenti di manici, tappi e suppellettili – costituiscono una rarità assoluta in contesti medievali italiani, raramente conservati in modo così integrale.
Un gesto, forse, rituale
Il pozzo come luogo di abbandono sacro? Gli archeologi riflettono sul significato finale del deposito
Infine, un’ipotesi suggestiva: la natura stessa del deposito, la sua varietà, l’assenza di fratture intenzionali, potrebbe indicare un gesto di abbandono rituale. Forse, nel momento in cui il pozzo fu dismesso, qualcuno volle affidargli gli oggetti della comunità come atto propiziatorio, o di memoria. Come un’offerta al tempo stesso all’acqua e al tempo.
La luna nel pozzo: un riflesso d’inganno e desiderio
Tra illusioni d’acqua e sogni impossibili, l’origine di un proverbio che sa di magia antica
L’espressione “la luna nel pozzo” — oggi usata per indicare un’illusione o una chimera, qualcosa di apparentemente splendido ma irraggiungibile — ha radici profonde, sedimentate tra folklore, filosofia e immaginario poetico. Come spesso accade nei modi di dire, anche qui l’immagine non è casuale: nasce da un’esperienza visiva ancestrale, condivisa da popoli diversi, e legata a un gesto semplice ma intriso di mistero. Guardare dentro un pozzo.
Un riflesso antico quanto l’uomo
Il pozzo come specchio del cielo e trappola per l’ingenuo sognatore
Nelle notti limpide, il fondo d’un pozzo d’acqua ferma può riflettere perfettamente la luna. L’effetto è tanto più sorprendente quanto più il bordo di quel pozzo incornicia l’immagine celeste, dando l’illusione che l’astro si trovi imprigionato lì sotto, come un tesoro affondato in silenzio. La luna riflessa può apparire raramente nello specchio d’acqua in fondo al pozzo, a causa della profondità del liquido. Pertanto essa deve essere quasi perpendicolare al pozzo stesso. Ciò è assai difficile. In moltissime culture, già in epoca preclassica, questa visione suscitava un senso di fascinazione e insieme di inganno: non solo era difficile “cercare la luna nel pozzo” ma una volta individuata, era impossibile catturarla. Chi tentava di “prendere” la luna nel pozzo si scopriva vittima di un sogno irrealizzabile. Calando un secchio, per prenderla, essa si dissolveva nei riflessi franti della superficie dell’acqua stessa.
La favola orientale
Dal mondo arabo al Medioevo latino, la storia del monaco e della luna
Un’origine letteraria proverbiale è individuabile in alcune favole orientali — in particolare nella raccolta indiana Pancatantra e nelle successive versioni arabe del Kalila wa Dimna — dove si narra di un saggio o un monaco che, credendo di vedere la luna caduta nel pozzo, si affanna per trarla in salvo, gettando dentro una fune. Soltanto alla fine, quando la luna scompare per il movimento dell’acqua, l’uomo si accorge d’essere stato vittima di un’illusione. Questo racconto, passato in Europa attraverso la mediazione della cultura araba e poi ebraico-sefardita, diventa nel Medioevo latino una metafora chiara dell’inganno dei sensi e della vana avidità.
Illusione d’amore, sogno di ricchezza
La luna nel pozzo nei canti popolari italiani e nelle immagini contadine
Nel folklore italiano, l’espressione “vedere la luna nel pozzo” ha avuto fortune diverse, oscillando tra la malinconia amorosa e la satira paesana. In molti dialetti, è il simbolo dell’amante illuso o del giovane che, pieno di aspettative irrealistiche, “si crede chissà chi”. Ma allo stesso tempo, nelle favole contadine, la luna nel pozzo è anche simbolo di ricchezza promessa — un oro falso, uno specchio che tradisce. Una versione veneta della leggenda, per esempio, racconta di un contadino che, vedendo brillare la luna in fondo al pozzo, crede di aver trovato un tesoro e chiama tutta la famiglia per festeggiare. Solo l’onda increspata dell’acqua distruggerà il sogno.
L’eco filosofica
Illusione, conoscenza e verità: Platone, Agostino e la “luna imprigionata”
L’immagine si è caricata nei secoli di risonanze filosofiche. Nel mondo platonico, l’illusione del riflesso è uno dei grandi paradigmi dell’inganno sensoriale: ciò che vediamo non è mai la realtà, ma la sua ombra. Sant’Agostino riprende questo concetto nelle sue Confessioni, parlando della conoscenza umana che si abbevera non alla fonte diretta, ma al riflesso dell’eterno. In questo senso, la luna nel pozzo diventa metafora della sapienza imperfetta, dell’idea incompleta che pure seduce e abbaglia.
La luna nel pozzo oggi
Dal proverbio alle installazioni artistiche contemporanee
Ancora oggi, l’espressione continua ad affascinare. Alcuni artisti contemporanei — come l’israeliano Dani Karavan o il giapponese Hiroshi Sugimoto — hanno costruito opere in cui la luna e il suo riflesso diventano il centro visivo ed emotivo dell’installazione, spesso in relazione a pozzi, vasche o superfici d’acqua. Il proverbio è anche tornato in auge nella psicologia popolare: sognare la luna nel pozzo è visto come simbolo di desideri profondi, repressi o inappagabili.
Nel caso di Orvieto, la metafora si colora di storia vera: nel “pozzo del tempo” del Campo della Fiera non c’è una luna illusoria, ma un’intera cosmologia del passato, fatta di cocci, sigilli, vasi e ferri, caduti davvero nelle acque oscure dei secoli. E lì riflessi, a lungo, nel buio che custodisce la verità.