di Rosario Rampulla
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi / che ’n mille dolci nodi gli avolgea / e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi ch’or ne son sì scarsi”.
[F]rancesco Petrarca cantava così l’aspetto di “Madonna Laura” nel sonetto XC del Canzoniere. Una “sequenza mirabilis” per tradurre in versi l’aspetto di una donna, della donna amata, il cui incedere “non era cosa mortale, ma d’angelica forma”. Il ricordo di Petrarca viene quindi sbalzato su una lastra temporale precisa, su un istante che appare irripetibile: quello in cui i capelli biondi della donna vengono mossi dal vento e il suo sguardo arde, al di là d’ogni immaginazione. E’ un’immagine ossessiva, una delle prime ad essere incisa nella mente del poeta. Da qui discende il dagherrotipo intinto nell’inchiostro di uno dei simboli stessi dell’amore letterario.
Di Laura sappiamo, se non tutto, molto. Un amore, quello del poeta, nato in seguito al primo incontro (datato 6 aprile 1327, nella cornice della chiesa di Santa Chiara) e durato fino alla morte di lei, avvenuta oltre vent’anni dopo, nel 1348. Quali erano i suoi lineamenti, il sembiante da cui scaturirono dolci parole intrise di una carnalità che, seppur lieve, rappresentò il superamento della donna divinamente salvifica dantesca, incarnata dalla Beatrice della Divina Commedia, o della creatura-angelo di cui tessevano le lodi amorose gli stilnovisti? Laura era di carne e sangue: ma che aspetto mai avrà avuto? Cosa può avere scatenato il turbinio di sentimenti che sembra tracimare dai versi del Canzoniere?
Una risposta, purtroppo, non c’è, ma non si può rinunciare a pensare che l’effigie di Laura dovette circolare a lungo; e forse – ma è solo un’ipotesi lontana – il tempo riserverà, tra antiche carte, la scoperta del ritratto che Simone Martini dedicò alla donna ideale dell’amico.
La prova dell’esistenza del ritratto autentico di Laura viene direttamente dal Canzoniere petrarchesco. Nella fattispecie esce da due sonetti (il LXXVII e il LXXVIII) in cui il poeta evoca un ritratto di Laura frutto dell’arte di Simone Martini, celebre pictor civicus senese che di Petrarca fu sodale. Il dipinto potrebbe risalire al soggiorno avignonese dell’artista, durato dal 1339 – ma si ritiene che il primo viaggio sia avvenuto attorno al 1335 – al 1344 (quindi ai tempi in cui Laura era ancora in vita) e che si intrecciò con quello del Petrarca stesso.
I versi relativi al dipinto perduto risultano assai suggestivi, fin dall’incipit che recita “Per mirar Policleto a prova fiso / con gli altri ch’ebber fama di quell’arte / mill’anni, non vedrian la minor parte / de la beltà che m’ave il cor conquiso. / Ma certo il mio Simon fu in Paradiso / onde questa gentil donna si parte / ivi la vide, et la ritrasse in carte / per far fede qua giù del suo bel viso”. Una lode grandissima ad un ritratto in cui Martini, meglio ancora di Policleto e di altri artisti famosi per la loro abilità, riuscì a cogliere la bellezza del volto (“per far fede qua giù del suo bel viso”) come molti pittori non avrebbero saputo fare nemmeno se si fossero impegnati per mille anni.
I versi del Petrarca, poi, non lasciano dubbi sul luogo dal quale fu ricavato il ritratto: Simone lo dipinse “in Paradiso”, perfetta idea di una bellezza che trascende i vincoli dell’umanità. E non potrebbe essere stato altrimenti, perché “l’opra fu ben di quelle che nel cielo / si ponno imaginar, non qui tra noi / ove le membra fanno a l’alma velo”. Per “Paradiso” dobbiamo però intendere un luogo ideale.
Simone Martini riprodusse la perfetta idea di Laura, senza il vincolo delle sue spoglie mortali. Quindi la chiave interpretativa è proprio questa: fu il paradiso a fornire carte e colori affinché l’artista potesse rendere giustizia ad una bellezza troppo grande perché vincoli umani fossero in grado di incasellarla in una dimensione di pura ordinarietà.
A questo punto la curiosità non può che aumentare. Purtroppo, però, le note iconografiche che il Canzoniere fornisce non sono troppo esaurienti. Certo, parole quali: “Quando giunse a Simon l’alto concetto / ch’a mio nome gli pose lo stile / s’avesse dato a l’opera gentile / colla figura voce ed intellecto” chiariscono le virtù di un ritratto cui, quasi fosse una citazione proto-michelangiolesca sulla verosimiglianza, mancavano soltanto “voce ed intelletto”.
Forse anche Petrarca, rimirando le forme della donna amata fissate sulla carta da Simone, si interrogava sul motivo per il quale non parlasse, tenendo viva la fiamma di un amore comunque inestinguibile. Ed è un peccato che l’opera, andata perduta, non sia più in grado di rivelarci le fattezze di colei che fu capace di suscitare versi così sublimi. Proprio la sublimazione quasi ultraterrena, del sentimento sembra poi far dire al poeta: “di sospir molti mi sgombrava il petto / che ciò ch’altri a più caro a me fan vile”. Netto rifiuto del concetto stesso di appagamento sensuale, seguito da una sorta di resa incondizionata di fronte alla bellezza del quadro che ritrae Laura; quindi un accorato appello per ottenere quelle risposte che il foglio a lungo ammirato non può dare. “Ma poi ch’i vengo a ragionar co’ llei / benignamente assai par che m’ascolte / se risponder savesse a’ detti mei!”. E ancora: “Pigmalion, quanto lodar ti dei / de l’immagine tua, se mille volte / n’avesti quel ch’i’ sol una vorrei!”.
Ma lasciamo per un attimo Francesco Petrarca ai suoi travolgimenti d’amore. C’è infatti un aspetto che colpisce oltremisura: se il quadro gode (e godrà) di fama imperitura grazie proprio alle lodi del poeta, le attestazioni nelle biografie del Martini non dedicano ad esso troppo spazio. Omissione o semplice ammissione di un divertissement che non lasciò troppa traccia di sé nella carriera dell’artista? E se così è stato, che fattezze diede Simone Martini a Laura? E ancora: in quali opere cercare ipotetiche somiglianze? Con le sue madonne stagliate sul fondo dorato? Oppure con le pennellate angeliche utilizzate per decorare la cappella di San Martino ad Assisi?
Resta così il mistero del volto di “madonna Laura”, quasi un rompicapo d’amorosi sensi. A meno di non fidarsi dell’estro di Giorgione e del suo Ritratto di giovane sposa (o Laura appunto), dipinto dal maestro nel 1506. Una bellezza piena, popolana, con un seno scoperto a simboleggiare fecondità, carnalità, con il lauro a richiamarne il nome: Laura, lauro, alloro. Era così dunque Laura? I fianchi generosi, la fronte spaziosa e lo sguardo vagamente vacuo, vestita del ramo di lauro? Evidentemente il modello giorgionesco è molto distante dalla verità celeste di Petrarca e di Martini.
Amor cortese e pulsioni della carne: a chi avrà dato ragione il pittore toscano? Quale suggerimento avranno dato i suoi colori nel momento in cui fu chiamato a regalare al mondo l’immagine vera, reale di una donna che potremmo considerare appartenente alla sfera del mistero?
A quasi settecento anni dalla morte, “Madonna Laura” conserva intatto il suo carisma. Perché non pensare, fantasticare di un Petrarca troppo innamorato per condividerne l’effigie con altri, con occhi meno rispettosi?
Laura rivive nell’inchiostro sgorgato direttamente dal suo cuore. I colori di Simone Martini, invece, se li è portati via il tempo, nella fama immortale dei dipinti perduti. E, di conseguenza, consegnati al mito.
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