Nuove scoperte archeologiche. Giochi e forcine per signore di 1800 anni fa. Un blocco di pietra testimonia le decorazioni magnificenti dell’edificio. Come e perchè fu distrutto? Che funzione aveva questo palazzo?

L’estate archeologica inizia con un colpo di scena emozionante nel nord dell’Inghilterra: volontari riportano alla luce una colonna di arenaria durante gli scavi nel club di cricket di Carlisle. Dietro di essa, forse, il profumo perduto di un grande edificio romano dedicato al piacere del corpo e dello spirito.

Il terreno, rimosso con delicatezza dalle mani dei volontari, ha restituito nelle ultime ore una sezione di colonna romana perfettamente conservata, che lascia intravedere — secondo i primi commenti degli archeologi — non solo la magnificenza dell’architettura perduta, ma la possibilità di essere sulla soglia di un’area monumentale, ancora intatta, nascosta, fino a pochi giorni fa sotto i campi erbosi del cricket club di Carlisle. Qui  duemila anni fa potrebbe esserci stata un’oasi di bagni e  relax e profumi, giochi e quiete. Un luogo frequentato da uomini e donne, in momenti separati o forse anche condivisi, dedicato alla rigenerazione del corpo e al nutrimento dell’anima.

La colonna, un massiccio cilindro di arenaria, misura 60 centimetri in lunghezza per 40 di diametro. Era adagiata nella terra come un osso fossile, con le sue nervature nette e il peso di secoli addosso. È il primo elemento architettonico di rilievo ritrovato nel sito, ma le circostanze del ritrovamento fanno intuire che si tratti di “solo la punta dell’iceberg”, come ha dichiarato Frank Giecco, direttore del progetto Uncovering Roman Carlisle. Giecco, archeologo esperto e volto noto della ricerca nel nord dell’Inghilterra, ha parlato con entusiasmo della scoperta: «Ci dà un’idea della grandiosità dell’edificio. È un oggetto meraviglioso. Siamo davvero solo agli inizi, ma questo frammento potrebbe essere la chiave per comprendere l’intera area».

Non è un ritrovamento isolato. Lo scavo, che negli anni ha già regalato emozioni — teste scolpite, una rarissima tintura romana di porpora, gemme incise — sta cominciando a mostrare un volto più strutturato. Insieme alla colonna, sono riemersi oggetti in osso finemente lavorati: una forcina da donna, un cucchiaio, ma anche un set da gioco, simile alla dama, con pedine incise con il nome del proprietario. “Non c’è niente di più personale di un oggetto inciso col proprio nome”, ha osservato Giecco.

È proprio l’associazione tra questi reperti apparentemente disparati — la colonna monumentale, gli oggetti da toeletta, i giochi da tavolo — a suggerire l’ipotesi che l’edificio sepolto possa non essere un semplice tempio o una domus, ma un complesso termale romano, forse a carattere rituale. Un luogo, insomma, in cui i cittadini dell’antica Luguvalium (l’attuale Carlisle) si immergevano nelle acque calde e fredde, si facevano pettinare, giocavano, socializzavano e partecipavano forse anche a pratiche sacre collegate al benessere e alla purificazione.

Nel mondo romano, le terme non erano soltanto strutture per l’igiene: erano veri e propri centri sociali, politici, culturali. E spesso ospitavano spazi dedicati a divinità curative — come Aesculapius o le Ninfe — e a riti legati alla fecondità, alla salute, al passaggio delle età. I materiali finora ritrovati a Carlisle si inscrivono perfettamente in questo contesto: da un lato, elementi riconducibili alla sfera femminile, come la forcina e gli strumenti da toeletta; dall’altro, giochi e passatempi maschili, come le pedine incise. Una pluralità di presenze che rafforza l’idea di un luogo pubblico, accessibile a più categorie della società, in momenti diversi della giornata.

E se l’associazione tra giochi e terme può sembrare insolita, non lo è affatto nel contesto romano. I giochi da tavolo erano comunemente usati nelle apodyteria (gli spogliatoi) e nei palestrae, durante i momenti di relax. Più rare sono invece le pedine con iscrizioni personali, il che fa pensare che il proprietario fosse un frequentatore abituale, forse un cittadino di rango, affezionato al suo “set” personale di gioco, un po’ come oggi si porta con sé un libro o uno smartphone. L’incisione rappresenta un documento intimo, una firma nel tempo, una voce che riaffiora dal silenzio.

Frank Giecco e la sua squadra di volontari stanno lavorando con pazienza e cautela, consapevoli che ogni centimetro di terra può celare una sorpresa. Il ritrovamento della colonna nella seconda settimana di scavo lascia presagire che l’estate 2025 potrebbe rivelarsi particolarmente fruttuosa. Ma Giecco frena ogni entusiasmo prematuro: «Siamo ancora agli inizi. Ma posso dire che quello che stiamo vedendo ora cambia la percezione dell’area».

E non è una semplice ipotesi. Le precedenti scoperte, tra cui le celebri teste romane scolpite — forse ex voto o elementi decorativi legati a divinità locali —, unite alla presenza di gemme e pigmenti rari, suggeriscono una vocazione rituale dell’edificio. In epoca romana, la fusione tra acque, salute e sacralità era un dato culturale profondo. Edifici come il complesso di Bath o le terme di Aquae Sulis dimostrano come il mondo romano sapesse fondere cura del corpo e devozione, mondanità e mistero.

Carlisle, antica Luguvalium, sorgeva lungo il Vallo di Adriano, in una zona strategica tra l’impero e il mondo barbarico. Era un crocevia di culture, di soldati, mercanti, sacerdoti e popolazioni locali. E proprio qui, ai margini di Roma, si riaffaccia oggi la memoria di un edificio che sembra aver accolto anime di ogni età e genere, unite dal desiderio di conforto, di gioco, di bellezza. Oggi lo chiamiamo “club di cricket”. Duemila anni fa, forse, era un santuario dell’acqua e del tempo.


Quando le pietre si fanno polvere
Il destino degli edifici antichi tra abbandono, riuso e saccheggio: l’eco lunga di un crollo silenzioso

La colonna ritrovata nel sottosuolo del club di cricket di Carlisle, distaccata dal suo contesto originario, racconta più di quanto sembri. Come un relitto alla deriva, sopravvissuto a tempeste e naufragi, testimonia non solo la presenza di un edificio monumentale, ma anche la lunga e spesso brutale parabola della sua fine. Un processo lento, fatto di trasformazioni, crolli, riutilizzi e oblii.

Il destino degli edifici antichi, soprattutto in zone periferiche dell’Impero come la Britannia, fu quasi sempre segnato da una dissoluzione progressiva. Dopo la fine del controllo romano, attorno al V secolo, la manutenzione cessò, gli impianti idraulici smisero di funzionare, le coperture iniziarono a cedere. Gli edifici, un tempo vibranti di vita, divennero presto prede del tempo e degli uomini.

Non fu un crollo improvviso, ma una lunga agonia, punteggiata da gesti umani concreti: la rimozione delle tegole per riutilizzarle altrove, l’asportazione dei metalli per fonderli, il recupero delle pietre da costruzione. I complessi più raffinati — come appunto le terme, ricche di marmi, stucchi, colonne, statue — venivano spesso spogliati sistematicamente, ridotti a cave di materiali di pregio.

A questa fase seguiva spesso un’epoca più oscura, quella dell’abbandono vero e proprio. Le strutture superstiti venivano sepolte da alluvioni, frane, o semplicemente coperte da detriti e terra portata dal vento. In alcuni casi, il suolo cambiava destinazione d’uso: i templi diventavano pascoli, le piazze campi coltivati, le terme giardini o depositi. La memoria dell’edificio si spegneva, e con essa la sua identità.

In epoca medievale, la gran parte degli antichi complessi romani era ormai ridotta a ruderi irriconoscibili, e proprio per questo disponibile a una nuova vita. Le pietre venivano inglobate nelle chiese, nei castelli, nei muri agricoli. Le colonne, spezzate, finivano nei muretti. Gli architravi decorati diventavano stipiti. Solo in rari casi, come a Bath, alcuni elementi furono riutilizzati senza essere completamente distrutti, dando oggi agli archeologi la possibilità di ricollegarli all’originario impianto romano.

Il frammento di colonna ritrovato a Carlisle si inserisce esattamente in questa dinamica. Non fu forse scartato, ma abbandonato sul posto o volutamente deposto in fase di smantellamento. La sua sopravvivenza è un colpo di fortuna, un dono del caso o della topografia. È anche una testimonianza del destino ultimo di tanti altri elementi architettonici scomparsi: inghiottiti dalla terra o dissolti nelle forme di un mondo nuovo.

Eppure, ogni volta che uno di questi frammenti riemerge, come oggi in Inghilterra, porta con sé non solo un’eco di grandezza perduta, ma anche la possibilità di ricostruire, pezzo dopo pezzo, il volto di una civiltà che credeva nella pietra come memoria eterna. E che oggi, grazie all’archeologia, torna a parlare con la voce silenziosa delle sue rovine.

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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa