Pacco misterioso dall’Inghilterra: restituiti a Pompei frammenti rubati negli anni ‘70. Erano nascosti in un attico a Bolton. La maledizione ha colpito ancora?

Sapore di mistero, ricordi d’estate e la paura di una sfortuna antica: cosa spinge i turisti a restituire i reperti rubati da Pompei?


Il ritorno inaspettato

Pompei, 2025. Succede ancora. Come da una sceneggiatura perfetta per un film sospeso tra archeologia, destino e mistero, nei giorni scorsi al Parco Archeologico è giunto un pacco. Senza preavviso, senza mittente riconoscibile. Solo una città scritta sull’etichetta: Bolton, sobborgo industriale nel cuore del Regno Unito, oggi parte della Greater Manchester, dove si vive fra mattoni rossi e piogge sottili.

Il contenuto del pacco? Alcuni piccoli frammenti d’intonaco dipinto, evidentemente provenienti da una delle domus dell’antica città romana. Pezzi di materiali anche più moderni, pare. Reliquie. Un tempo si usava – sbagliando – raccogliere un ricordo. Accanto ai reperti, una lettera scritta con tono familiare e inquieto. A firmarla, una persona che racconta di aver ritrovato i manufatti nell’attico di uno zio scomparso, trafugati — si legge — “durante una visita a Pompei negli anni Settanta”.

Una piccola eredità e il peso della colpa

L’anonimo autore della missiva ha sentito l’urgenza di rimediare. Non tanto per un senso astratto di giustizia, ma — come spesso accade in questi casi — per una paura molto concreta: quella di essere vittima della cosiddetta maledizione di Pompei. Così i reperti sono tornati là dove erano stati strappati, come accade sempre più spesso negli ultimi decenni.

Il fenomeno dei “reperti pentiti” non è nuovo. Gli archeologi del Parco ne ricevono decine all’anno. Oggetti di ogni tipo: piccoli cocci, frammenti di mosaico, tessere, pezzetti di intonaco affrescato, monetine, perfino ceneri e pietre vulcaniche. I mittenti raccontano storie simili: lutti improvvisi, rovesci di fortuna, fallimenti amorosi o economici, malattie impreviste. Sempre accompagnati da una costante narrativa interiore: il sospetto che tutto sia cominciato con un piccolo furto, compiuto magari per gioco, o per sfida, in un pomeriggio assolato a Pompei.

Il catalogo degli oggetti restituiti

I reperti arrivati da Bolton, attualmente in fase di catalogazione presso i laboratori del Parco, consistono in tre frammenti d’intonaco dipinto, con tracce cromatiche visibili — prevalentemente rosso pompeiano e nero. Secondo una prima analisi visiva, potrebbero appartenere a una decorazione parietale di III stile pompeiano, databile attorno alla metà del I secolo d.C. Un’analisi più approfondita (attraverso microscopia e analisi dei pigmenti) potrebbe consentire la loro ricollocazione nel sito originario, ma è un compito complesso: negli anni Settanta molte domus erano ancora in parte prive di una documentazione completa.

Cos’è la “maledizione di Pompei”?

È difficile stabilire quando abbia cominciato a circolare il mito della maledizione di Pompei. Di certo, è una leggenda moderna, nata nel secondo dopoguerra e diventata virale — diremmo oggi — tra gli anni Ottanta e Novanta, anche grazie ai media internazionali. Secondo la credenza, chi rimuove un oggetto da Pompei o da Ercolano, si porta dietro non solo il peso morale del furto, ma anche la sfortuna degli antichi. Come se ogni frammento conservasse ancora dentro di sé il terrore della morte improvvisa, della lava, del silenzio eterno.

Un richiamo quasi archetipico, un tabù infranto che risveglia forze misteriose. La leggenda affascina, inquieta, colpisce la fantasia collettiva. E forse — suggeriscono alcuni antropologi — proprio per questo funziona così bene come deterrente.

Il flusso di ritorno dei “souvenir maledetti”

Negli archivi del Parco Archeologico di Pompei, si conserva una piccola collezione di queste “restituzioni postume”. Alcune lettere sono vere e proprie confessioni: piene di dettagli, scritte con mano tremante. Altre, invece, sono più laconiche. Alcuni pacchi arrivano addirittura senza biglietto, come se bastasse l’azione del restituire per spezzare il ciclo della sfortuna.

Nel 2020 fece scalpore la storia di Nicole, una donna canadese che restituì per posta vari reperti trafugati nel 2005, spiegando in una lunga lettera di aver vissuto vent’anni d’inferno. Il suo pacchetto conteneva due tessere musive, un frammento di anfora e un pezzo di intonaco. Raccontava di tumori, crisi economiche, incidenti familiari. Il suo caso fu ampiamente riportato dalla stampa internazionale e contribuì a rilanciare il mito.

Restituire: un atto simbolico e legale

Ma oltre la leggenda, c’è il fatto concreto. Rimuovere reperti archeologici dai siti è un reato grave, punito dalla legge italiana. Anche se molti furti risalgono a decenni fa e i colpevoli sono spesso ormai scomparsi, il Parco Archeologico incoraggia la restituzione come gesto etico e culturale. Spesso gli oggetti restituiti vengono esposti temporaneamente in mostre dedicate alla memoria del sito e alla responsabilità collettiva.

Come ha dichiarato più volte il direttore Gabriel Zuchtriegel, “Pompei non è solo un luogo del passato, ma uno specchio che ci interroga sul nostro rapporto con il tempo, con l’identità e con il senso della responsabilità”.

Quel che resta: un’eredità spirituale e materiale

Il caso del pacco da Bolton ci ricorda, ancora una volta, quanto fragile e potente sia il legame tra i luoghi della memoria e la coscienza individuale. Ogni frammento restituito non è solo un pezzo di muro, ma una scheggia di coscienza. Un nodo sciolto. Un passaggio da un senso di colpa a un gesto di riparazione.

E forse è proprio in questo piccolo atto — spedire un frammento con un biglietto vergato a mano — che si realizza, oggi, la vera funzione civile dell’archeologia: riconnettere ciò che è stato strappato, in un mondo che troppo spesso si dimentica di guardare indietro per andare avanti.



Condividi l'articolo su:
Redazione
Redazione

Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa