Un riflesso d’acqua celeste, in una zolla scura: scoperto dagli archeologi oggetto di vetro, databile al III secolo. Perché quel colore meraviglioso? Da dove veniva? Rispondono gli esperti

Si scava, si scende, ci si china tra le radici, e la terra risponde con un lampo d’azzurro: il ritrovamento di Ollie accende la fantasia degli archeologi. È romano, ed è vetro. Ma non un vetro qualsiasi…


Nella terra umida dell’ex campo sportivo di Carlisle

Un angolo della Britannia restituisce lo splendore dimenticato della tavola romana

Si lavora nel fango, si raschia con delicatezza la superficie stratificata del tempo. Nell’ex area sportiva di Carlisle – oggi uno dei principali cantieri archeologici urbani del nord dell’Inghilterra – i volontari seguono con passione le trame invisibili della storia. Ed è proprio mentre si ispeziona una zona di rinterro, poco al di sotto di una soglia secondaria, che accade: un bagliore trasparente e azzurro spicca tra le zolle scure. È la base integra, ma fratturata lungo il bordo, di un contenitore in vetro romano. Qualcuno dice: un piatto; altri affermano che fosse un vasetto, una brocca o un bicchiere. L’azzurro, diciamo noi, fa pensare a qualcosa di puro e fresco. All’acqua delle fonti, ai piedi di rive ombrose.

Il frammento viene sollevato con cura. È spesso, compatto, e porta con sé una trasparenza che incanta: una tonalità celeste che sembra imprigionare, ancora oggi, la luce di un giorno terso sopra le Alpi. A trovarlo è Ollie, uno dei giovani volontari del progetto “The Diggers: Archaeology in Carlisle”, coordinato da Jan Mather. E ieri, 18 giugno 2025, questo piccolo frammento di bellezza è diventato il protagonista temporaneo del sito.


Un vetro “acquatico”: il celeste come evocazione del sacro e del puro

Il colore non è solo decorazione: è simbolo, desiderio, lusso e filosofia del vivere

Il vetro celeste, nel mondo romano, non era casuale. Veniva ottenuto grazie all’aggiunta di ossido di rame in dosi minime, talvolta combinato con piccole quantità di ossido di cobalto. Il risultato era una gamma di azzurri e blu verdastri che evocavano, agli occhi degli antichi, la limpidezza delle sorgenti montane, la luce riflessa nei bacini alpini, la purezza delle acque salubri.

Non è solo una questione estetica. La scelta cromatica si legava anche all’ideale di claritas, la limpidezza interiore che riflette l’ordine cosmico. Un piatto azzurro non era solo un oggetto bello: era un messaggio, un frammento di cosmo sulla tavola.


Dove si produceva il vetro in Britannia?

Un’economia vetraia locale ma anche importazioni da sud, lungo le rotte del lusso romano

In Britannia, l’industria vetraia ebbe fasi alterne. Non mancano le evidenze di fornaci vetrarie attive – a partire dal II secolo – in aree come Londinium (Londra), Eboracum (York) e Verulamium (St Albans). Tuttavia, la maggior parte della produzione britannica sembra essersi concentrata sul riciclo del vetro piuttosto che sulla fabbricazione a partire da materie prime.

La purezza e la qualità del frammento di Carlisle fanno invece pensare a un prodotto d’importazione, forse arrivato già pronto o completato nel sud della Gallia o addirittura nell’Italia settentrionale, tra l’area adriatica e quella padana, dove le officine romane erano in grado di produrre vetri soffiati di notevole qualità.


Un oggetto da tavola tra lusso e quotidianità

Il frammento di piatto racconta la vita materiale di un’epoca in trasformazione

L’oggetto, a giudicare dal profilo e dalla forma del piede, era con ogni probabilità un piatto da portata o da servizio, forse usato per presentare cibi raffinati durante i banchetti delle classi agiate. La datazione proposta – metà del III secolo – coincide con una fase di forte instabilità nell’Impero, ma anche con un periodo di crescente regionalizzazione del lusso: mentre Roma si confrontava con crisi dinastiche, le élite provinciali consolidavano il loro gusto e le loro reti commerciali.

Non si tratta dunque di un reperto straordinario in sé, ma è straordinaria la sua capacità di evocare una cultura: quella della mensa romana, dove materiali, forme e colori costituivano un linguaggio simbolico e sociale.


L’acqua intrappolata nel vetro

La lucentezza del frammento come mimesi della natura: un’estetica “trasparente”

Il vetro, per i Romani, era materia filosofica. Era pietra liquida, trasparenza solida, incarnazione di un paradosso. La scelta del celeste – né verde né azzurro, ma qualcosa di intermedio – ricorda la superficie increspata di un lago o di una sorgente. Un vetro che imita l’acqua è un vetro che trasmette freschezza, refrigerio, purezza: qualità che, in un mondo dove l’acqua non era mai scontata, valevano quanto l’oro.

E la superficie lievemente irregolare, con le bolle intrappolate, aggiunge profondità al riflesso, come se vi fossero mondi intrappolati al suo interno. Le bollicine non sono difetti, ma segni di vitalità: il respiro della sabbia fusa. Il vetro verde-azzurro mostrato nell’immagine è un tipico esempio della produzione vetraria romana, ampiamente diffusa tra il I secolo a.C. e il IV secolo d.C. Il suo colore caratteristico non era solitamente il frutto di un’aggiunta intenzionale di pigmenti, bensì derivava naturalmente dalla composizione chimica delle materie prime utilizzate nella lavorazione del vetro.

La fabbricazione del vetro romano prevedeva la fusione di una miscela di tre componenti fondamentali: sabbia silicea (ricca di quarzo), natron (una sostanza sodica raccolta in particolare dai giacimenti del Wadi el-Natrun in Egitto) e calce, presente come impurità nella sabbia o introdotta da frammenti calcarei. Il natron agiva da fondente, abbassando il punto di fusione della silice, mentre la calce serviva a stabilizzare il vetro, evitando che si sciogliesse a contatto con l’umidità dell’aria.

Il colore verdognolo o azzurrino del vetro antico, come quello visibile nella fotografia, era determinato soprattutto dalla presenza accidentale di ossido di ferro nella sabbia silicea. Il ferro è infatti un elemento diffusissimo nelle sabbie naturali, e può presentarsi in forma ferrosa (Fe²⁺) o ferrica (Fe³⁺), influenzando in modo significativo la tonalità della massa vetrosa. Il ferro ferroso, prevalente in ambienti riducenti (cioè in condizioni con poco ossigeno durante la fusione), tende a colorare il vetro di un azzurro-verde. Al contrario, il ferro ferrico conferisce al materiale una tinta più tendente al giallo o al marrone chiaro.

In origine questo effetto cromatico era un fenomeno secondario, ma col tempo divenne una qualità riconoscibile e talvolta apprezzata, tanto da non essere più contrastata. Solo quando si desiderava ottenere un vetro completamente incolore, simile al cristallo di rocca, si interveniva per neutralizzare la tonalità verde con agenti decoloranti. Tra questi, l’ossido di manganese (noto come “sabbia nera”) era uno dei più comuni: non decolorava nel senso moderno del termine, ma neutralizzava otticamente le dominanti cromatiche. In epoche successive, anche l’antimonio fu impiegato con funzione simile.

Il vetro non veniva sempre prodotto e lavorato nello stesso luogo. In molti casi, specialmente nelle province occidentali dell’impero, si importava sotto forma di masse vetrose semilavorate o “lingotti” da grandi officine specializzate dell’area siro-palestinese ed egiziana, dove le materie prime erano più abbondanti e la tecnologia più affinata. Questi blocchi venivano poi trasportati e rifusi nelle vetrerie locali dell’Italia settentrionale, della Gallia o della Germania romana, dove si modellavano gli oggetti finiti mediante la soffiatura o l’uso di stampi.

L’esemplare mostrato presenta numerose bollicine e impurità interne. Tali caratteristiche sono coerenti con i procedimenti tecnici antichi: i forni non raggiungevano temperature elevate come quelli moderni, il controllo dell’atmosfera interna era limitato e mancavano strumenti per la raffinazione del vetro fuso. Le inclusioni gassose e i residui solidi sono perciò normali conseguenze della lavorazione. In epoca romana, questi “difetti” non erano visti necessariamente in modo negativo: in certi casi contribuivano all’identità visiva e tattile del materiale.


Il contesto: Carlisle, città di frontiera e di scambi

Una città viva anche nel III secolo, nonostante la crisi imperiale

Carlisle, l’antica Luguvalium, era un importante snodo urbano situato lungo il Vallo di Adriano. Sebbene la città avesse una funzione prevalentemente militare, gli scavi recenti hanno mostrato la presenza di una popolazione stabile, con quartieri abitativi, botteghe, magazzini e spazi di consumo.

Il frammento di vetro ritrovato da Ollie si inserisce perfettamente in questo contesto. Non proviene da un deposito militare, ma da un’area che doveva ospitare attività civili e domestiche. Forse la domus di un veterano, o una locanda di buon livello. L’oggetto, rotto e abbandonato, ci parla di un momento preciso: un piatto che cade, che si frantuma, e poi viene dimenticato.


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Redazione
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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa