Monsù Desiderio – Chi era il pittore demoniaco finalista al prossimo Campiello?

Fausta Garavini è autrice del romanzo Bompiani dedicato al misterioso artista. Dipinti spesso inquietanti: città splendide, grandiose, ma sinistre; gli inferi che si dischiudono come palazzi regali. Pittore dalla fervida immaginazione, François Didier de Nomé, detto Monsù Desiderio nacque a Metz, in Lorena, attorno al 1593 e morì a Napoli nel 1644

Dipinti spesso inquietanti: città splendide, grandiose, ma sinistre; gli inferi che si dischiudono come palazzi regali. Pittore misteriosissimo e dalla fervida immaginazione, François Didier de Nomé, detto Monsù Desiderio nacque a Metz, in Lorena, attorno al 1593 e morì a Napoli nel 1644. L’artista venne confuso spesso con il pistoiese Francesco Desideri, ma la sua vera identità è stata stabilita quando a Napoli è stato trovato, negli archivi, il suo contratto di matrimonio con la figlia del pittore fiammingo Loise Croys, Isabella. Di lui si sa pochissimo, nonostante sia stato un autore dotato di una carica onirica intensa, così da essere apprezzato, secoli dopo, da Breton e dai surrealisti. Il mistero è moltiplicato dal fatto che, dopo la sua morte, nella bottega napoletana l’opera fu continuata dal pittore connazionale Didier Barra, sicchè si era pensato che monsù Desiderio fosse lui, come risulta da antichi inventari. A Monsù Desiderio è dedicato il romanzo di Fausta Garavini, finalista del Premio Campiello, che qui recensiamo.

monsù
di Claudio A. Barzaghi
È una lenta, inarrestabile, terribile e vischiosa discesa all’inferno quella che ci consegna Fausta Garavini con il romanzo Le vite di Monsù Desiderio. La discesa è quella di un giovanissimo francese, François Didier De Nomé, originario di Mezt, che per sfuggire a una povertà stritolante si avventura prima a Roma, dove diventa pittore, e poi a Napoli dove ottiene il meritato successo, si sposa e a un certo punto, rimasto vedovo, scompare nel nulla. Siamo nel ‘600 pre barocco, per l’esattezza nel 1624 quando tutto si conclude.
Leggendo il romanzo non stupisce affatto la fascinazione della quale sembra vittima la scrittrice che descrive passo a passo il viaggio quasi iniziatico del pittore, d’altronde era già capitato ad André Breton di rimanerne colpito, e in un certo senso affondato, quando fraintendendo la pittura di questo misterioso artista lo aveva arruolato tra i precursori del surrealismo, tuttavia non sbagliando del tutto, almeno secondo la Garavini, nel considerarlo un esponente dell’arte magica.
Quel che però non poteva sapere il padre del Surrealismo, e noi stessi sappiamo oggi a malapena date le informazioni documentarie scarse quando non poverissime, è che dietro al nome Monsù Desiderio (italianizzazione di Monsieur Didier) si celassero in realtà due pittori, François Didier De Nomé e Didier Barra, accomunati dal medesimo nome “Didier” e dalla località di provenienza, Metz, appunto; due elementi che misteriosamente li fanno incontrare, solidarizzare e probabilmente li inducono ad aprire bottega insieme, dando origine a una sorta di marchio di fabbrica destinato ad alimentare equivoci e misteri.
Il mistero che ha sempre circondato Monsù Desiderio, però, una volta svelato si rivela poca cosa, non così, invece, il romanzo in questione. Scritto con vera maestria, il testo si dipana con linguaggio lussureggiante, riempiendo con immaginifica fantasia e ricchezza di dettagli le lacune storico-biografiche, le quali sono in realtà per la gran parte incolmabili. Eppure, nonostante l’impegno e gli innegabili pregi narrativi, la sensazione dalla quale è difficile liberarsi nel corso della lettura – e solo chi ama i dolciumi può cogliere appieno il senso del paragone – è quella di trovarsi al cospetto di una torta sontuosa, ricchissima di ingredienti e canditi e glasse multicolori, maestosa nella sfolgorante bellezza, ma densa e zuccherosa, come solo alcuni dolci troppo elaborati e “carichi” sanno essere.
monsù copertina
Bello comunque, non v’è dubbio, e pure onesto nelle intenzioni culinarie dell’autrice che qua e là fanno capolino: a esempio quando, a pagina 219, descrive con queste parole un’opera del De Nomé: “Lui si sbizzarrisce in prospettive in diagonale di colonnati, architravi istoriate, torrioni, guglie e bifore contro cieli notturni, magari con una mezzaluna d’argento. Con pennellate bianche a rilievo su un fondo traslucido costruisce regge di meringa, muri caramellati, cattedrali di cammeo. Sui fastigi mette delle statue che rifiutano la pesantezza monumentale, come fossero di marmo zuccherino”. Oppure quando, in occasione del primo incontro napoletano dei due pittori destinati a collaborare, Didier Barra racconta d’essere figlio di un oste e di aver fatto pratica di cucina: “del resto, diceva, mescolare carni e legumi non era molto diverso dal mescolare vernici e patine. La cucina è un’arte: quando mescoli gli ingredienti è come quando impasti i colori sulla tavolozza, l’azzurro oltremarino col bianco di cerussa e accanto metti il giallo di Napoli e la terra d’ombra” (pagina 237).
Naturalmente non si tratta solo di un effetto gastronomico, ma della competizione linguistica ingaggiata dalla Garavini con il periodo tardo manierista al quale appartiene artisticamente l’eroe uno e bino. Al dunque va subito aggiunto che le si perdona quasi tutto, anche il senso di sazietà, se non altro per la minuziosa ricostruzione degli ambienti e la competenza artistica non comune che traspare in ogni descrizione delle opere, prevalentemente di quelle del De Nomé (“In bottega lavorava come al solito. Per sé, quando aveva tempo, disegnava scene di catastrofe. Prendeva le prospettive di Vredeman de Vries e le disfaceva, copiava la struttura di un edificio ma abbatteva il fastigio, fendeva la cupola, spezzava le colonne, Casurae urbes stant, le città stanno in piedi, destinate a cadere”, pagina 151), perché il Barra entra in scena solo verso la fine e si capisce che la sua produzione nettamente più “frigida” (“Barra è preciso e coscienzioso, le sue vedute di Napoli, accurate e fedeli, danno l’idea di una rappresentazione neutra, oggettiva, fondata sul misurabile”, pagina 269) non le accende la fantasia.
Per concludere il romanzo merita, anche di vincere il premio Campiello al quale concorre, però per impadronirsi del mistero Monsù Desiderio suggeriamo di rivolgersi al testo di Maria Rosaria Nappi, François De Nomé e Didier Barra. L’enigma Monsù Desiderio, Jandi Sapi, al quale la stessa Garavini con onestà intellettuale rimanda.
Fausta Garavini, Le vite di Monsù Desiderio, Bompiani, 2014, € 22,00
 
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