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Fai una macchia su un foglio o sulla tela. Ti suggerirà ciò che devi dipingere. Il metodo di Leonardo e gli altri


di Maurizio Bernardelli Curuz

Assecondare pittoricamente una macchia, lo scoscendimento di una roccia, le immagini platonicamente imprigionate nella materia. L’osservazione di volti, corpi, montagne che emergono casualmente da vecchi muri scrostati o imbevuti d’umidità, del gioco del salnitro sull’intonaco o, ancora, dei volumi, delle concrezioni e dei conglomerati nelle pietre ha spesso fornito agli artisti gli elementi in grado di trascendere dai tradizionali approcci compositivi.

Fu per questo che alcuni maestri, come Piero di Cosimo, vennero considerati massimamente eccentrici in quanto i soggetti, che si palesavano in modo ectoplasmatico su un foglio unto o sporco di fuliggine, venivano poi trasposti nei dipinti. Leonardo – il quale ha ricavato diverse idee dalle macchie (soprattutto per la realizzazione dei paesaggi di fondale) e steso disegni, assecondando l’assetto chiaroscurale delle macchie o le loro silhouette che si erano casualmente prodotte sui fogli confluiti poi nei Codici – fu un grande teorizzatore dell’uso di elementi figurativamente epifanici, ma, al tempo stesso, espresse critiche a quei colleghi che utilizzavano la macchia senza correzioni cromatiche o strutturali. Ciò che risulta evidente è il fatto che la superficie maculata poteva essere tratta da elementi esterni – muri, rocce, ecc. – o direttamente ricreata sulla tavola o la tela, procedendo dal caos igneo delle origini a una procedura di Creazione.

A giudizio di Leonardo una preparazione casuale, come quella ottenuta con volute di colori diversi, può essere ottima per ricavare elementi iconografici e compositivi caratterizzati dall’originalità e dall’incisività. L’artista, infatti, invita ad accogliere il suggerimento contenuto nella materia, per completarlo coerentemente, conferendogli una piena riconoscibilità, grazie all’azione del pennello o della penna; ma egli critica quei pittori che, rifiutando l’intervento di correzione della tache – sottovalutando pertanto l’accuratezza nelle realizzazioni paesaggistiche -, si accontentavano di stendere spugnature di colore sulla calce a fresco o sulla tavola, lasciando nella vaghezza ciò che avevano ottenuto attraverso l’azione di spremitura o di impacco.

Leggiamo, a questo proposito, il passo del Trattato della pittura nel quale il grande toscano mette a fuoco il comportamento sommario di molti colleghi che usano la macchia senza rifinitura per evocare i fondali naturali, i quali si traducono così in “tristissimi paesi”: “Quello non sarà universale che non ama egualmente tutte le cose che si contengono nella pittura – scrive Leonardo -, come se uno non gli piace i paesi, esso stima quelli esser cosa di breve e semplice investigazione, come disse il nostro Botticella, che tale studio era vano, perché col solo gettare di una spugna piena di diversi colori in un muro, essa lascia in esso muro una macchia, dove si vede un bel paese. Egli è ben vero che in tale macchia si vedono varie invenzioni di ciò che l’uomo vuole cercare in quella, cioè teste d’uomini, diversi animali, battaglie, scogli, mari, nuvoli e boschi ed altre simili cose; e fa come il suono delle campane, nelle quali si può intendere quello dire quel che a te pare.

Ma ancora ch’esse macchie ti dieno invenzione, esse non t’insegnano finire nessun particolare. E questo tal pittore fece tristissimi paesi”. Nonostante la critica nei confronti di un uso sommario e non corretto della spugna e della macchia, Leonardo ritiene questa tecnica, debitamente modulata, uno strumento straordinario ai fini dell’invenzione, che diviene più fantasiosa ed efficace. Uno dei paragrafi sulla pittura è appositamente dedicato al “Modo d’aumentare e destare l’ingegno a varie invenzioni”. Egli sostiene che l’idea delle figure e soprattutto delle composizioni può emergere pure osservando le macchie di vecchi muri sporchi oppure scrutando, nelle pietre, fratture e conglomerati. “Non resterò di mettere fra questi precetti una nuova invenzione di speculazione, la quale, benché paia piccola e quasi degna di riso, nondimeno è di grande utilità a destare l’ingegno a varie invenzioni.

E questa è se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o in pietre di vari misti. Se avrai a invenzionare qualche sito, potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi”. Il potere evocativo della macchia trascende l’ambito paesaggistico per diventare, in molti casi, suggerimento di un assetto dinamico, attraverso il quale pervenire al superamento dello stereotipo pittorico. Sui muri e tra le macchie “ancora vi potrai vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e buona forma; che interviene in simili muri e misti, come del suono delle campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t’immaginerai. Non isprezzare questo mio parere, nel quale ti si ricorda che non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchie de’ muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi, ne’ quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime, che destano l’ingegno del pittore a nuove invenzioni sì di componimenti di battaglie, d’animali e d’uomini, come di vari componimenti di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e simili cose, perché saranno causa di farti onore; perché nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni. Ma fa prima di sapere ben fare tutte le membra di quelle cose che vuoi figurare, così le membra degli animali come le membra de’ paesi, cioè sassi, piante e simili”. L’uso della macchia fu assai diffuso, e soprattutto fu praticato dai pittori veneti, che operavano in un colorismo scarsamente poggiato sulle necessità vincolanti del disegno. El Greco – che si formò artisticamente a Venezia – dà l’idea di aver compiuto stesure vibranti, mosse e caotiche sul fondale, che gli consentivano poi, attraverso la linea di contorno o di chiusura della figura evocata, di praticare una pittura dalla fluttuante aura onirica.


Una pratica che possiamo osservare, come emanazione dell’inventio leonardesca, anche in artisti del Novecento. In queste pagine presentiamo i lavori singolari realizzati dai lombardi Vittorio Trainini – che operò persino sulle fotografie, estraendo figure nascoste – e Oscar di Prata, il quale, per la pittura da cavalletto, creava un fondo indistinto con colori diversi, andando poi a “scolpire” con il pennello le forme che s’erano materializzate nella scrittura automatica del Caso.

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