di Laura Corchia Negli ultimi anni, nel settore del restauro, si è fatta strada una corrente di pensiero che privilegia interventi il meno invasivi possibile e, laddove le condizioni dell’opera lo permettano, l’adozione di misure volte esclusivamente alla manutenzione dei manufatti artistici e al mantenimento di parametri ambientali idonei ad accogliere gli stessi. Il presente articolo è un abstract del mio lavoro di tesi, dal titolo “Il restauro dei dipinti su tela tra minimo intervento e tecniche tradizionali. Esperienze di laboratorio”. Attraverso due diversi casi di restauro, obiettivo della mia ricerca è stato quello di porre a confronto le due metodologie di intervento e di valutarne differenze, affinità, risultati finali e aspettative a lungo termine.
Il primo restauro ha riguardato una tela settecentesca attribuita a Nicola Malinconico. Il dipinto, attualmente custodito nella Cattedrale di Gallipoli (Lecce) ed è un olio su tela di considerevoli dimensioni. L’opera giaceva nei depositi del Museo Provinciale di Lecce e presentava pertanto differenti tipologie di degrado, soprattutto in conseguenza di un precedente intervento effettuato intorno alla metà degli anni Settanta del Novecento. L’operazione di risanamento da noi effettuata ha seguìto i principi del “minimo intervento” ed è stata esclusivamente finalizzata alla ricollocazione in chiesa dell’opera. Parte di una serie di otto tele che rappresentano i diversi momenti dell’Invenzione della mammella di sant’Agata, episodio leggendario e miracoloso avvenuto sul lido a sud-est di Gallipoli, il dipinto raffigura una donna del contado che, recatasi presso una fonte a lavare i panni, si addormenta, mentre la figliola trova la mammella e inizia impulsivamente a succhiarla. In alto è rappresentata sant’Agata che, apparsa in sogno alla madre, le svela ciò che sta accadendo.
La martire indossa un elegante abito ed è coperta da un bel manto di colore azzurro, ha una fluente capigliatura bionda ed un incarnato chiaro. Non sono presenti le tenaglie, suoi attributi tipici, ma la Santa presenta i seni chiaramente recisi da due tagli orizzontali posti all’altezza del petto. In basso, la bambina è distesa orizzontalmente tra la vegetazione ed è colta nell’atto dolce ed istintivo di portare alla bocca la mammella. La porzione alta della tela è occupata dalla rappresentazione di un paesaggio, probabilmente una veduta del castello di Gallipoli. L’intero ciclo pittorico aveva subìto un restauro considerevole intorno al 1974-1979. In sostanza, ogni tela era stata foderata – la foderatura è un’operazione di rafforzamento della tela originaria, ottenuta incollando una nuova tela resistente nella parte posteriore del dipinto, ndr – impiegando il Mowilith 30 (un collante a base di acetato di polivinile che aderisce per evaporazione del solvente). Inoltre, i dipinti erano stati montati su telai del tipo Rigamonti (dal nome del loro inventore) in alluminio ad espansione angolare, precedentemente messi a punto dallo stesso tecnico per le tele di Caravaggio conservate nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dopo questo intervento, presumibilmente a causa dell’elevato calore che si produceva nella parte alta della navata centrale, dove le tele si trovavano collocate tra un finestrone e l’altro, o dell’impiego di una tela da rifodero non compatibile con l’origine sintetica del Mowilith 30, si è verificata una perdita di adesione tra il supporto originale e la tela impiegata per la foderatura, fino a provocare un ripiegamento della tela su sé stessa con conseguente formazione di pieghe e diffuse perdite di colore. In accordo con il funzionario responsabile della Soprintendenza, si è deciso di procedere con un intervento prettamente conservativo e volto a ripristinare la fruibilità della tela, lasciando la stessa a vista (sebbene valga la pena ricordare come questa non sia più costituita dai soli materiali originali, dal momento che il Mowilith 30 impiegato per la precedente foderatura, penetrando in profondità nelle fibre del tessuto, ne ha modificato irrimediabilmente le caratteristiche, pur tuttavia rendendola elastica, resistente e dunque in grado di non richiedere una ulteriore foderatura). L’intervento ha provveduto alla rimozione delle ormai inadeguate tele da rifodero, alla pulitura del retro per mezzo di spazzole, all’applicazione di fasce perimetrali lungo i bordi e lungo le cuciture, al ritensionamento sul telaio ed al ricollocamento in chiesa.
Si è ritenuto di non procedere con la stuccatura delle lacune, con la pulitura e con l’integrazione pittorica perché l’immagine, nel suo complesso, risultava ancora chiaramente leggibile e la vernice, risalente all’ultimo restauro, non appariva eccessivamente alterata. Per l’applicazione delle fasce perimetrali si è utilizzato il Beva 371, ideato nel 1970 dal professor Gustav Berger con il nome di BEVA® 371. Si tratta di un prodotto a base di etilenvinilacetato, paraffina, resina chetonica, al 40% di contenuto solido in solventi alifatici e aromatici. Utilizzato con l’apposito DILUENTE 372 forma un adesivo reversibile e con buona elasticità e stabilità chimica. Questo adesivo fu concepito al fine di superare i problemi causati dai due collanti tradizionali comunemente impiegati nel restauro, la “colla-pasta” e le misture di “cera-resina” e per evitare un problema molto diffuso nelle foderature, il restringimento dei supporti o “shrincage”.
La seconda esperienza ha riguardato un dipinto raffigurante Sant’Angelo Martire ed appartenente ad una serie di dodici tele con Sante e Santi dell’Ordine Carmelitano. I dipinti sono collocati nella Chiesa della Madonna del Carmine di Nardò (Lecce), disposti nel registro superiore della navata centrale. A causa della dispersione dell’archivio e della mancanza di firme sulle opere, non è stato possibile effettuare una attribuzione certa. Il pessimo stato di conservazione di questo olio su tela ha reso necessario un intervento di restauro tradizionale. Sant’Angelo Martire è ritratto al centro del dipinto e indossa il saio carmelitano, caratterizzato da una tonaca bruna e da una cappa bianca. Il Santo appare come un uomo non più giovane, ha uno sguardo accigliato, barba lunga, capelli bianchi e sulla fronte sono evidenti delle gocce di sangue, chiaro riferimento al martirio subìto. Con la mano destra impugna la palma del martirio, attributo tipico di coloro che sono stati uccisi per non aver rinnegato la propria fede in Dio. La figura poggia il piede su una nuvola ed è accompagnata da due graziosi angeli. Il cherubino posto alla sua destra veste un panneggio blu e regge con entrambe le mani un grosso coltello insanguinato, attributo di Sant’Angelo che, secondo la tradizione, fu ucciso con diversi colpi di pugnale. In alto, l’altro angelo giunge a porgere una corona.
A causa dell’elevato degrado che interessava telaio, supporto e pellicola pittorica, si è deciso di procedere con un restauro completo dell’opera adottando tecniche tradizionali, come la foderatura a “colla-pasta”. L’adesivo è stato preparato secondo la tradizione fiorentina, ovvero utilizzando colla forte e colla di coniglio, farina integrale, farina di semi di lino, farina di grano, allume di rocca (utile per combattere gli attacchi dei parassiti), acido fenico (per contrastare la formazione delle muffe) e trementina veneta . Questi materiali, totalmente reversibili, sono compatibili con quelli originali, hanno un discreto potere collante e si asportano con facilità. Il dipinto è stato inoltre consolidato, pulito su recto e verso, stuccato, reintegrato con tecnica a rigatino e montato su un telaio in abete bianco ad espansione.
Foderare o non foderare un dipinto costituisce il cardine attorno al quale ruota la discussione tra sostenitori delle tecniche tradizionali e propugnatori del “minimo intervento”. I due materiali indispensabili alla foderatura sono una tela e una colla, elementi che entrano a far parte della composizione del dipinto su cui sono attaccati. Il supporto, dopo la reintelatura, non risulta più composto soltanto dai suoi materiali originali, ma quantomeno è condizionato da quelli apportati dal restauro. Inoltre, il metodo di applicazione degli stessi influisce pesantemente sull’opera: umidità, calore e peso rappresentano fattori di trasformazione. Tuttavia, i materiali di origine naturale impiegati nella foderatura presentano degli innegabili pregi e non sempre possono essere sostituiti con sostanze sintetiche. A differenza di quest’ultime infatti, essi sono stati sperimentati per secoli e, di conseguenza, si hanno più informazioni riguardo il loro comportamento, l’interazione con i materiali costitutivi e le alterazioni nel tempo. L’affinità con i materiali originali è un’altra caratteristica fondamentale, mentre la reversibilità è determinata dalla scelta degli ingredienti e dalla quantità impiegata per la preparazione della pasta da rifodero. La foderatura a pasta è tuttavia stata frequentemente criticata poiché determina: aumento dell’acidità nel tempo, eccessiva tenacia dell’adesivo impiegato, aspetto rigido delle tele. Inoltre, umidità, calore e pressione possono alterare la superficie pittorica. A differenza delle tecniche tradizionali, il “minimo intervento” richiede un contatto di tipo fisico ma, soprattutto, psicologico con l’opera d’arte, un dialogo continuo con essa, un incessante interrogativo. Ogni manufatto è considerato un caso unico, un paziente da trattare con circospezione ed umiltà. Con il minimo intervento si punta ad ottenere il massimo successo conservativo operando nella maniera meno invasiva possibile, avvalendosi in modo non distruttivo ed in misura adeguata dei metodi scientifici di analisi e di ricerca. Uno degli aspetti più rilevanti del minimo intervento è la conservazione preventiva, ossia una attenzione costante all’ambiente che accoglie l’opera. In sostanza, si può affermare che obiettivo del minimo intervento è eliminare tutti quegli aspetti che possono rappresentare un pericolo o un potenziale fattore di degrado. La tendenza è quella di intervenire il meno possibile, lasciando sull’opera i segni del tempo che è trascorso e non considerando necessariamente nocive le normali alterazioni dei materiali originali. Sebbene si tratti di un approccio recente, una filosofia del minimo intervento si può rintracciare nella tradizione fiamminga. Già nel XV secolo sono registrati episodi che testimoniano la preoccupazione di ospitare l’opera d’arte in un ambiente salubre. Nel 1444 un mercante di Valence fece costruire una cassa in vista del trasporto del san Giorgio e il drago di Jan Van Eych: l’opera era imballata in tre libbre di cotone e messa in una cassa di quercia. Il tutto era impacchettato in un tessuto bianco, probabilmente cerato. È il primo esempio noto di contenitore costruito appositamente per il trasporto: il cotone faceva da tampone, la tela impermeabile regolava la temperatura e forse anche il colore bianco deve essere stato scelto perché non intensifica il calore dei raggi luminosi. Porre sul piatto della bilancia le due correnti di pensiero e decidere quale sia più opportuno adottare non è cosa di poco conto. Sebbene si tratti di due orientamenti per certi versi antitetici, è possibile individuare un fattore comune: la ricerca della soluzione ottimale e l’attenta valutazione di ogni operazione. Minimo intervento e tecniche tradizionali si presentano dunque come facce di una stessa medaglia, come strade non sempre destinate a scorrere in maniera parallela e finalizzate ad un unico scopo: non cercare di riportare l’opera agli antichi splendori, ma prendersi costantemente cura di essa, riflettendo su ogni operazione da compiere e valutando, di volta in volta, pro e contro.
Restauro dei dipinti su tela – Cos'è il minimo intervento, cosa sono le tecniche tradizionali?
Porre sul piatto della bilancia le due correnti di pensiero e decidere quale sia più opportuno adottare non è cosa di poco conto. Sebbene si tratti di due orientamenti per certi versi antitetici, è possibile individuare un fattore comune: la ricerca della soluzione ottimale e l’attenta valutazione di ogni operazione