di Beatrice Avanzi
“Stile” intervistò Marla Prather, responsabile della collezione di Arte post-bellica del Whitney Museum,che fu curatrice della mostra “New York Renaissance”, allestita a Milano. Ma quelle parole restano poichè la pop at non appare così comprensibile, come quando viene spiegata da uno studioso americano
Nell’immediato dopoguerra – periodo storico assai difficile e tormentato – numerosi artisti Usa propongono risposte nuove, sia dal punto di vista contenutistico che da quello formale. Ecco, in particolare, la rivoluzione dell’Espressionismo astratto, divaricato nei due ambiti, quello prevalentemente segnico e quello più attento ai piani cromatici…
Non è esattamente una rivoluzione, perché per molti aspetti deriva dalla pittura che l’ha preceduta. Ciò che la guerra ha causato è stata piuttosto una profonda trasformazione dell’arte in Europa e in America. A causa della guerra, molti artisti hanno lasciato l’Europa e si sono stabiliti a New York, che era il centro dell’arte americana, dando vita a uno scambio molto intenso tra i due continenti. In questo senso, non si è trattato esattamente di una rivoluzione, quanto del fatto che, per la prima volta, gli artisti Usa hanno cercato di affermare la propria identità. E mentre stavano imparando dai maestri europei, allo stesso tempo stavano anche cercando di definire un linguaggio autonomo e originale.
La Pop Art rappresenta indubbiamente uno dei momenti più noti, significativi e riconoscibili dell’arte della seconda metà del Novecento, in America e non solo. Vuole sintetizzare per i nostri lettori le caratteristiche del fenomeno, “sospeso” tra elegia e derisione delle icone del benessere?
Per molti aspetti la Pop Art è stata una reazione a ciò che l’ha preceduta. Anziché enfatizzare l’arte come espressione individuale o come ricerca di una dimensione spirituale, gli autori pop guardavano alla società contemporanea e ne facevano l’oggetto della propria arte, senza necessariamente criticarla o celebrarla. La loro è una sorta di reazione – come dicevo -, ma di reazione “neutrale” al boom del dopoguerra, a ciò che è avvenuto negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’economia era molto forte e si assisteva all’inarrestabile invasione dei media e della pubblicità. La Pop Art è stata una risposta a questa situazione.
Contemporaneamente alla Pop Art, si sviluppano in America diversi movimenti – pensiamo al Minimalismo – che tendono invece ad un “allontanamento” dalla raffigurazione. In quali direzioni?
Il Minimalismo non fu completamente dissimile dalla Pop Art, nel senso che entrambi i movimenti cercavano una visione più “oggettiva” del mondo, negando l’aspetto individuale, soggettivo dell’opera d’arte. Le opere minimal erano fabbricate industrialmente, disegnate o progettate, ma non “create” dall’artista con le proprie mani, al contrario di quanto avveniva nell’Espressionismo astratto, dove la manualità era espressione dell’individualità. Sotto molti aspetti, la Pop Art faceva la stessa cosa negli anni Sessanta. Andy Warhol usava tecniche fotografiche o serigrafiche nella Factory, in un modo che prendeva le distanze da ciò che gli esponenti dell’Espressionismo astratto avevano fatto. Analogamente, per la Minimal Art si trattava di un rifiuto del “soggettivo” e della ricerca di un approccio più “oggettivo”.