di Giovanna Galli
La concomitanza con la chiusura per restauri del Museo nazionale Fernand Léger di Biot (Francia) ha consentito a Palazzo Magnani di Reggio Emilia di ricevere in prestito la parte più significativa della collezione (che comprende anche cinque dipinti in deposito temporaneo appartenenti al Centre Georges Pompidou di Parigi) per la mostra “Fernand Léger”, fra gli appuntamenti più attesi del programma dell’istituzione reggiana. Una selezione di oltre cento opere conduce alla scoperta del maestro francese, nato nel 1881 e scomparso nel 1955, il cui percorso artistico tanta influenza ebbe sulle generazioni successive, europee ed americane. Abbiamo rivolto alcune domande a Sandro Parmiggiani, direttore delle attività espositive di Palazzo Magnani.
Vogliamo analizzare i momenti iniziali del percorso artistico di Fernand Léger, partito da una pittura di genere post-impressionista e cézanniano?
La mostra di Cézanne al Salon d’Automne nel 1904 rappresenta per Léger, come per Picasso e Braque peraltro, un’autentica folgorazione: Cèzanne aveva dato un nuovo ordine alle cose, sottraendole alla semplice sistemazione naturalistica e riorganizzandole in quell’intima struttura che regola i rapporti del reale; e tutto ciò esercitò su Léger un enorme fascino. Per questo motivo abbandonò istantaneamente il modo di dipingere tipicamente impressionista che aveva caratterizzato le sue prime prove (da lui stesso in gran parte distrutte), sperimentando una nuova costruzione dell’immagine, fatta di volumi compatti, ma anche di grande dinamismo. Di questi primi momenti del suo percorso, in mostra proponiamo due opere del 1905: “Il ritratto dello zio” e “Il giardino di mia madre”. Subito dopo si osserva l’attenzione per i risultati della pittura cubista di Picasso e Braque, sebbene Léger mantenga una ben definita autonomia stilistica.
Vuole spiegarci quali sono le peculiarità del suo stile, quelle che più lo allontanano dal cubismo ortodosso?
La scomposizione dell’immagine attuata da Léger è sì in una direzione cubista, ma si tratta di una direzione pressoché autonoma, che all’impegno di ottenere una struttura pittorica in cui tutte le relazioni fra gli oggetti siano integralmente rappresentate, aggiunge lo sforzo, tutto suo, di sottolineare la plasticità propria di ogni singolo oggetto. E’ centrale l’interesse per il contrasto tra le forme – figure, architetture, indicazioni di paesaggio -, che sarà un tema fondamentale della ricerca dell’artista. Di questa fase proponiamo il quadro “Tetti di Parigi”, del 1912, che è uno dei cinque che il Centre Georges Pompidou ha lasciato in deposito temporaneo al Museo di Biot, e ancora un abbozzo per “La donna in blu” e “14 luglio”.
Oltre che pittore, Fernand Léger fu una figura di intellettuale a tutto tondo. Non è un caso che sia stato amico e frequentatore di molte personalità della cultura internazionale, da Chaplin, a Le Corbusier, ad alcuni dei più importanti esponenti della letteratura del’900…
Il rapporto con gli altri esponenti della cultura del tempo influenza notevolmente la sua ricerca. L’incontro con il cinema di Chaplin, ad esempio, gli offre una prospettiva nuova rispetto alla possibilità di una rappresentazione veramente realistica dei personaggi nel loro muoversi ed esistere in un ritmo dinamico. Da qui, oltre all’esperimento di un suo film, “Il balletto meccanico”, sempre per rispondere al fascino del ritmo e del movimento lavora per la scenografia di alcuni spettacoli di danza (ricordiamo, fra gli altri, il famoso “La costruzione del mondo”). Gli esiti ottenuti in questo periodo sono rintracciabili anche nella produzione posteriore, ad esempio quella in cui affronta il tema del circo, dove giocolieri e funamboli vengono colti sulla tela in sequenze a diversa velocità. Negli anni Venti si misura con Mondrian, col nuovo rapporto tra arte e architettura; e fondamentale in questa direzione è il legame con Le Corbusier, che lo porta alla realizzazione di quadri in cui emergono grandi equilibrio, energia, ottimismo. Nasce qui quel Léger delle ampie scene d’interni, delle figure ieratiche, dalla composta monumentalità, che ritroviamo fino alla fine del suo percorso.
Ritorniamo un momento all’interesse di Léger per gli oggetti…
Gran parte della modernità della sua ricerca è rintracciabile proprio nella riscoperta degli oggetti in quanto tali, in quanto portatori di un loro proprio valore estetico-formale. Lungamente egli lavora a quadri in cui gli oggetti appaiono accostati in modo assolutamente libero, pur nella loro piena consistenza (pensiamo alla celebre “Gioconda con le chiavi”, in cui al grande mazzo di chiavi centrale si affiancano l’icona leonardesca e una scatola di sardine): Léger utilizza immagini libere per rappresentare la materia di cui è veramente fatta la realtà. Pensiamo poi al tema molto ricorrente delle “macchine” (in mostra proponiamo ad esempio “Elemento meccanico in fondo rosso”, del 1924), spesso inventate: con esse egli intende rappresentare la logica di movimenti, ritmi e forze che costituiscono il frutto della nuova condizione umana.
La mostra, dunque, testimonia tutte le direzioni in cui si è espressa la creatività del maestro?
Vorrei precisare che questa mostra nasce non come vera e propria antologica, ma con l’intento di illustrare una collezione, che è quella del Museo di Biot, la quale raccoglie le opere di Léger che al momento della morte erano ancora nel suo studio, insieme a quelle da cui egli stesso non volle mai separarsi (per esempio i lavori che rappresentano il primo cristallizzarsi di un’idea creativa, di cui in seguito realizzò diverse versioni). Possiamo comunque affermare di poter offrire uno spaccato completo di tutta la sua carriera. In totale i pezzi proposti sono più di cento, di cui trenta dipinti, una settantina di disegni e bozzetti, e anche tre arazzi e cinque ceramiche. La produzione in ceramica rappresenta un importante specchio dell’estrema attività di Léger: nei primi anni Cinquanta in Costa Azzurra, a contatto con il famoso ceramista Roland Brice, si appassiona a questo materiale, ed esegue opere modulari, anche di grandi dimensioni. Per quanto riguarda gli arazzi, ne proponiamo, fra gli altri, uno del 1930, realizzato a partire da un bozzetto per il già citato balletto “La costruzione del mondo”.