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di Enrico Giustacchini
Si conclude, con questa intervista a Ida Gianelli l’inchiesta che “Stile” ha dedicato alla Transavanguardia.
Parliamo di tradizione. Con la Transavanguardia, si passa dal rifiuto della tradizione, propugnato dalle avanguardie, ad una riconsiderazione. Bonito Oliva ha espresso il concetto di lateralità, ha parlato di superamento dell’“evoluzionismo darwiniano” della storia dell’arte. Ma con tutto ciò, la tradizione riconquista un ruolo importante.
La Transavanguardia tiene in considerazione la tradizione. Oggi, rispetto agli anni delle prime uscite pubblico del movimento, si vede con più chiarezza la continuità: con maestri come de Chirico o Savinio, certo, ma pure con autori successivi.
I componenti della Transavanguardia hanno profonda stima di artisti anche diversissimi da loro, formalmente e persino concettualmente, per tipo di analisi. Hanno con loro un rapporto di continuità e di sviluppo. Non c’è, insomma, un’interruzione netta, una spaccatura drammatica che impedisce raccordi con la storia dell’arte fino a quel momento. Così, a sua volta, la Transavanguardia diventa fonte d’ispirazione per autori diversi, che hanno sviluppato linguaggi diversi. Ed in questo essere punto di riferimento si disegna l’importanza che il movimento ha assunto a livello universale.
I “magnifici cinque” del movimento si rapportano con la tradizione pittorica ciascuno a modo suo, assecondando la propria sensibilità, il proprio humus culturale, la propria personale esperienza. Chi sono, in estrema sintesi, i referenti per ciascuno di loro?
Cominciamo da De Maria: è facile capire che il referente primario è Licini; c’è una comune “azione lirica”, utilizzata per proseguire un discorso che nel tempo ha preso strade diverse. Cucchi guarda in primis a Scipione, subendo altresì l’influsso della cultura e del paesaggio della sua terra, le Marche. In Chia è evidente la lezione di de Chirico e Savinio. Clemente allarga i propri orizzonti sino a comprendere culture molto lontane dalla nostra, come quella dell’India. Paladino, infine, procede in parallelo con la pittura e la scultura, risalendo a forme arcaiche e antiche civiltà, assorbendo elementi legati alla propria tradizione mediterranea, di uomo del sud: un po’ come Cucchi, egli si apre a culture solo apparentemente ristrette, a microcosmi che sono, insieme, macrocosmi.
In tutto ciò possiamo leggere anche una sorta di rifiuto degli aspetti più deteriori dell’internazionalizzazione, dell’omogeneizzazione. Transavanguardia come arte “no global”, insomma (per usare un termine oggi ricorente). Eppure, nonostante fosse portatore di questi concetti tutt’altro che retrivi, il movimento fu etichettato come espressione di una cultura reazionaria da certa critica di impostazione sociologica, in particolare negli Stati Uniti (pensiamo a Buchlohl).
Era, questa, un’interpretazione riduttiva, banalizzante. Si rinunciò ad una lettura più complessiva, si volle vedervi soprattutto se non soltanto un riferimento – molto didattico – a certa pittura dei primi del Novecento. A questo punto scattava, inevitabile, il conflitto generazionale che è nelle cose, nell’arte come nella politica o nei rapporti sociali. Si tende a sempre a negare il padre, a reagire nei suoi confronti, magari anche in modo duro, violento, rompendo ogni vincolo. Solo che, nel caso della Transavanguardia, qualche critico dimenticava che oramai c’erano due generazioni davanti, non una sola.
Non si aveva più a che fare con il padre, ma con il nonno.
Proprio così. Il problema è che in ogni campo, anche in quello culturale, chi si trova in posizioni di potere tende a conservarlo, e si oppone a chi tenta di scalzarlo dal proprio posto. Va detto peraltro che i primi a non condividere quella lettura in negativo furono gli artisti, anche molto distanti dal movimento fondato da Bonito Oliva. Mi vengono in mente – ma è solo un esempio – due protagonisti dell’Arte povera, Mario e Marisa Merz, che erano amici degli esponenti della Transavanguardia, si incontravano spesso con loro, discutevano.
Il recupero – sia pure “laterale” – del concetto di tradizione condotto dalla Transavanguardia si inserì a pieno titolo nel dibattito filosofico di quegli anni. Le analisi di pensiero, l’affermazione di principi ed estetiche del postmoderno trovarono nel movimento forse l’espressione più significativa, a livello mondiale, nell’ambito delle arti visive. Così come destava profondo interesse la coraggiosa apertura al valore della soggettività, in controtendenza rispetto alla cultura che sosteneva, sotto l’influsso dello strutturalismo, il rifiuto dell’individualità. Da qui la fortuna internazionale…
Certo, queste sono state le fondamenta del successo. Va detto inoltre che la Transavanguardia nasce nel momento storico più “propizio”, all’interno di quella dimensione di internazionalizzazione, di mondialità, esplosa proprio tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. Credo che sia da sottolineare però soprattutto il fatto che il movimento era, almeno secondo me, intellettualmente il più ricco, artisticamente il più forte in assoluto, anche in rapporto a quelli sorti in altri Paesi e da Bonito Oliva avvicinati allo stesso. La Transavanguardia portò l’arte contemporanea italiana ad un livello di attenzione – persino in una realtà come quella degli Usa, in genere non troppo generosa con l’arte straniera – che non c’era mai stato in precedenza e che non ci sarebbe più stato dopo: non solo tra i collezionisti, ma pure nei grandi musei internazionali (ricordiamo che lo Stedelijk di Amsterdam, ad esempio, acquistò diverse opere a due anni soltanto dalla nascita del movimento: prima di allora, non si era mai verificata una così rapida storicizzazione).
Parliamo della storica mostra da lei curata al Castello di Rivoli Abbiamo chiesto a Bonito Oliva un pensiero in proposito. “Finalmente” ci ha risposto “Rivoli diventa un museo bipartizan, dove convivranno fianco a fianco i due grandi movimenti italiani che hanno influenzato l’arte mondiale degli ultimi decenni, ossia l’Arte povera e la Transavanguardia”.
La mostra propose un’ottantina di opere, equamente suddivise tra i cinque autori, realizzate tra il 1979 e il 1985. Quattordici di queste sono state acquisite dalla Fondazione Crt e rimarngono in deposito permanente al Castello. Molti musei del nostro Paese raccolgono lavori di arte contemporanea italiana, anche importanti, ma solo in rari casi pezzi “storici”. Rivoli ha così avuto l’ambizione di rompere il… “cerchio perverso”, orientandosi nelle proprie acquisizioni verso opere destinate a rimanere nella storia dell’arte. Abbiamo scelto di privilegiare i due movimenti fondamentali rispetto agli autori che si sono mossi individualmente Le nostre acquisizioni si sono dirette dapprima sull’Arte povera, per giungere, appunto, alla
Transavanguardia.(Stile arte, 2003)
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