di Enrico Giustacchini
[“S]ono da tre giorni a Milano. Oggi ho visto un quadro che mi ha fatto inumidire gli occhi. La Pietà di Giambellino a Brera. E’ la perfezione stessa. Il sogno di un artista non può andare più in là. C’è tutto. E’ terribile!!”.
Chi scrive così, chi confessa di aver pianto davanti ad un dipinto quattrocentesco, è – lo avreste creduto? – Umberto Boccioni. All’epoca – corre l’anno 1907 – ha venticinque anni. E adora i classici.
Gira per l’Europa alla ricerca della grande pittura. Aspira a diventare, egli stesso, un grande pittore. Eccolo, in settembre, a Monaco di Baviera. Annota nel suo taccuino (i taccuini dell’artista sono stati ripubblicati, nel 2003, a cura di Gabriella Di Milia, da Abscondita): “Ho visitato la Pinacoteca antica, importantissima. Infinità di cose buone e alcune meravigliose: Dürer con l’autoritratto a 28 anni mi atterrisce… Ci vorrebbe un volume a parlarne”.
E pochi giorni dopo: “Mi entusiasmano tutti gli artisti fino a Raffaello. Oh, mi inebriano, mi trasportano, sono un loro schiavo… Leonardo m’è venuto alla mente come non mai prima! Che intelletto divino! E c’è chi dice che la Scienza ha ucciso l’Arte. Ma può essere ciò?”. Ancora, in dicembre: “Leggo Müntz, un libro sul Rinascimento. Le parole che dice su Leonardo Michelangelo Bramante Raffaello mi fanno scomparire come la neve al sole. Come posso credermi qualche cosa davanti a simili giganti?”.
Concludiamo con una riflessione del febbraio del 1908: “Michelangelo! Come posso arrischiarmi con le mie parole a parlare di Lui? Chi sono io? Perché scrivo? Per me? Sì, forse questo mi permetterà di dire che m’inginocchio e adoro… Oh! Misteriosa potenza del genio! Io non posso seguirlo in tutto. V’è un punto in cui lo vedo varcare una soglia ed entrare nel Mistero. Adoro e basta!”.
Lasciamo Boccioni ai suoi innamoramenti, ai suoi rovelli, ai suoi proclami d’inadeguatezza degli esordi. Facciamo un salto temporale, sino al 1916. Sono passati solo otto anni, ma in questi otto anni è successo di tutto, nel mondo dell’arte. E’ nato, ad esempio, quello che sarà uno dei maggiori e più dirompenti movimenti del secolo, il Futurismo. Ed Umberto Boccioni ne è l’osannato principe.
Eppure… Il rovello ogni tanto si fa sentire; il tarlo del dubbio rode. Colui che ha proclamato il gioioso primato del movimento, colui che ha cantato la scoppiettante carica della macchina e dell’artificio, si lascia cogliere a volte, e ogni volta un po’ più a fondo, dalla nostalgia. Le idee sono ancora vaghe, l’orizzonte lontano e caliginoso. Ma quei pensieri sulla tradizione, sulla classicità ritornano ostinatamente.
C’è stata, frattanto, a complicare le cose, l’esperienza della guerra. Umberto aveva accolto con entusiasmo la notizia dell’inizio del conflitto; con gli altri compagni di strada dell’avventura futurista si era arruolato volontario, in un guasconesco e abbastanza improbabile “Battaglione ciclisti”. Presto, però, la realtà si era rivelata ben diversa. Vista da vicino, la guerra aveva perduto il suo alone eroico e glorioso. “Sonno! Letto! Mangiare!” sono le ultime parole che troviamo scritte nel diario dal fronte. Poi il ritorno a casa, il faticoso riavvicinamento all’attività pittorica, mentre il disincanto e i dubbi montano di pari passo.
Boccioni non si arrende. Sceglie di non crogiolarsi nella fama acquisita, di non dormire sugli allori. L’alfabeto gagliardo delle linee-forza e della scomposizione iconica lascia il posto alla solennità nuova di un ricompattamento plastico, di una riedificazione formale in senso figurativo. Il vate del Futurismo avverte ineludibile la necessità di un rallentamento. Per vedere meglio – pensa -, per meglio mettere a fuoco, servono un passo più largo e una minore concitazione.
L’immagine si fa così, negli ultimi quadri, più centrale, più definita nell’impianto volumetrico, più “assoluta”. Umberto dipinge i suoi ritratti avendo davanti agli occhi e nel cuore la sublime lezione del passato, i sublimi maestri: e, su tutti, Cézanne. “La sintesi, i pieni ed i vuoti come negativi e positivi di concavi e convessi muovono la struttura disegnativa con purezza e semplificazione di mezzi” osserva, a proposito di queste opere, Guido Ballo.
Nei primi mesi del 1916, il Nostro è ospite del musicista Ferruccio Busoni. Un committente prestigioso, il cui ritratto è la prova più celebre e riuscita dell’estremo periodo del pittore. Busoni detestava il Futurismo, e qualcuno ne approfitterà per sostenere la tesi che la svolta stilistica di Boccioni avrebbe avuto motivazioni anche utilitaristiche. Una tesi che provocherà l’appassionata reazione, tra gli altri, di Aldo Palazzeschi: “Solamente chi non ha conosciuto Boccioni può cadere in questo equivoco. Le opere di quel momento, dobbiamo considerarle attraverso l’incontentabilità e l’implacabilità del suo spirito sinceramente rivoluzionario, attraverso la sua lungimirante e spietata intelligenza che gli faceva misurare i limiti di una nuova via fino dal suo inizio… Tornare alla propria origine… significava costruire un trampolino di lancio e attingere nuova lena per una più audace e sicura conquista”. Certo, quei mesi furono, pur nel travaglio, mesi di ritrovato entusiasmo per l’artista. In calce ad una lettera all’amico compositore egli aggiungerà questa postilla: “Vedo, rileggendo, che ho ripetuto la parola felicità tre volte… Sono realmente in un periodo felice. Procedo con passo di danza…”.
La danza si interromperà purtroppo presto. Il richiamo alle armi in luglio. La caduta da cavallo, poche ore di agonia, la morte assurda il 17 di agosto. Se il destino non fosse stato con lui così crudele, chissà dove sarebbe arrivato, Umberto Boccioni, a furia di inseguire – sempre danzando – il fantasma di una pittura insieme antica e nuova, che è come dire eterna.