intervista di Giovanna Galli
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Ci vuole raccontare come si connota il suo personale “incontro” con Frida Kahlo?
L’incontro con il suo lavoro avvenne nel 1969 in occasione del mio primo viaggio a Città del Messico. Fu in quella circostanza che inciampai, naturalmente nel senso migliore del termine, nella sua opera e anche nel monumentalismo dei suoi compagni di strada, Rivera, Orozco, Siqueiros. Fu allora infatti che conobbi quell’ambiente e che presi atto di ciò che era l’arte messicana fino a Tamayo, dai muralisti, sino, appunto, a Frida Kahlo, artista che è stata un po’ la Giovanna d’Arco dell’arte messicana: capace di mettere in primo piano la “differenza” rispetto a un tessuto culturale e artistico tutto al maschile. La sua femminilità appare rovesciata all’esterno, è esposta senza pudore, e in questo senso si osserva la volontà di mettere in primo piano non solo la faccia, ma anche le viscere, ciò che sta dentro. In tale aspetto del suo lavoro vi è la tradizione del realismo messicano coniugata in modo esplicito al surrealismo europeo, con tutta una serie di ammiccamenti, di agganci e di riferimenti a un’iconografia legata alla cultura popolare del suo Paese.
Lei ha definito l’opera intera di Frida Kahlo come un sintomo stilistico dell’affermazione del “senso della perdita” che caratterizza il linguaggio altamente intellettualizzato dell’arte moderna. Vuole spiegarci questo concetto?
Credo che Frida potrebbe essere definita un’involontaria artista manierista, in quanto, proprio a partire dalla perdita – perdita dell’unità, perdita della possibilità di maternità, perdita della possibilità di un amore totale con Diego Rivera…- ha cercato nell’arte una specie di rituale, attraverso cui l’arte stessa acquista il valore di un risarcimento. L’artista, la donna, Frida Kahlo pratica questo rituale per recuperare la propria identità. E lo fa attraverso una quasi ossessiva pratica dell’autoritratto.
Infatti l’autoritratto rappresenta il genere propenderante della sua produzione.
L’autoritratto è un genere tipico di chi teme di scomparire, di chi si sente cancellato dalla totalità della vita e intende riaffermare allora, proprio attraverso l’autocitazione, la propria esistenza, la propria identità. Bisogna d’altra parte notare che gli autoritratti di Frida Kahlo sono sempre “arredati”, non sono mai spogli, vi è in essi la costante assistenza di altri elementi o altri soggetti (una scimmia, un letto, le viscere…) e vi è sempre un bilanciamento tra astratto e figurativo.
E in ciò si compie, dal punto di vista operativo, l’intreccio tra imitazione e citazione.
Vede, il manierismo non è una formula riduttiva. Il manierismo ha una sua profondità, una sua dolorosità. Il manierismo del Cinquecento, nella prima versione, quella della scuola fiorentina, è un manierismo che soffre della perdita delle sicurezze rinascimentali, della centralità della ragione e che attraversa profonde derive verso lidi sconosciuti, verso l’ipocondria… Si pensi ad esempio a quanto poco l’eleganza stilizzata di Parmigianino abbia potuto “proteggerlo”, tanto che poi questa stessa eleganza non gli permise di sopravvivere ed egli giunse a togliersi la vita con quella stessa mano che aveva creato l’arte. Particolarmente importante è tale aspetto di ambivalenza del manierismo, che ritorna, a mio avviso, come matrice molto forte dell’arte contemporanea. Io credo che il manierismo sia quella matrice di concettualizzazione dell’arte che nasce nel Cinquecento, dopo il Rinascimento, e che si perpetua fino al nostro secolo, fino anche a Frida Kahlo, dunque, attraverso una capacità di coniugare sprezzatura e sofferenza, dolore e abilità tecnica.
Come molti colleghi anche Frida partecipò intensamente al dibattito storico-culturale-artistico del tempo, facendo del suo un impegno a tutto tondo nel progetto di definizione dell’arte moderna in Messico…
Frida fu una donna molto impegnata anche politicamente. Sia attraverso i suoi rapporti con il Partito comunista messicano, sia con quello privilegiato che ebbe con Trotckij. I mesi interi trascorsi nel suo letto di dolore, dopo il terribile incidente, non le impedirono di farne anche un letto di delizia, attraverso l’erotismo dei suoi rapporti, ma anche attraverso la capacità di disegnare e di dipingere distesa sul letto. Era una donna caratterizzata da questa totalità: impegno politico e impegno artistico, impegno sociale e soggettività. Frida fu in qualche modo una suffragetta, magari involontariamente, che anticipò le posizioni avanzate del femminismo dell’arte contemporanea.
Come si compie l’appropriamento di Frida di linguaggi insieme figurativi e astratti, informali e oggettuali per la definizione del suo stile?
Attraverso un suo collegamento con l’arte europea. Il surrealismo, per cominciare, è molto importante come matrice dell’opera di Frida. E’ un surrealismo che naturalmente è tropicale, e in quanto tale molto violento, esplicito, volutamente non sofisticato, che a volte giunge a citare la naïveté delle immagini e in altre volutamente sfiora il kitsch. Ma questo fa parte della temperatura iconografica di un’artista che coniuga alto e basso, tradizione popolare messicana e riferimenti culturali alti, elaborazione che nasce dall’arte europea e che affonda nel lavoro del grande surrealismo di Dalí, nel richiamo a Tanguy, a Miró. Ci sono nel suo stile molteplici elementi che concorrono, che si accordano senza prevaricazioni. Vi è come già accennavo il costante passaggio tra figurazione e astrazione. Si pensi, ad esempio, al quadro “Senza speranza”, in cui la pittrice si autoritrae adagiata a letto mentre dalla sua bocca esce un magma informe. Nel costante passaggio dalla forma all’informe mi pare che sia ravvisabile una ricorrente idea di metamorfosi, idea, sempre vitale, di passaggio dalla vita alla morte, la circolarità della morte che torna alla vita. E’ un’idea legata a una sensibilità anche un po’ spagnola, controriformista (non dimentichiamo che dopo il manierismo viene il barocco), e c’è una “nerità” di fondo nella pittura di Frida Kahlo, che non è un colore quanto un atteggiamento dell’anima, una posizione della mente che quando dice vita ricorda anche la morte, quando allude alla morte allude anche alla speranza della vita.
Ci spieghi in che termini si realizza il ruolo della pittrice quale antesignana di movimenti di fine secolo, come la Transavanguardia.
Nel mio ruolo di storico della Transavanguardia ho cercato, un po’ anche per gioco intellettuale, delle consonanze dell’opera della Kahlo con tutti e cinque gli artisti – Clemente, Chia, Cucchi, De Maria, Paladino -, consonanze che effettivamente ho trovato, forse solo per suggestione. E questo perché l’artista, nel suo pragmatismo femminile, decongestionò in anticipo le appartenenze a una sola scuola, e in maniera libera citava, assumeva, elaborava stilemi provenienti da varie parti, attraverso l’eclettismo, e quindi l’assemblaggio di differenze stilistiche: operazione che la Transavanguardia compie sistematicamente, sia sul piano teorico, attraverso i miei saggi, ma anche sul piano creativo, attraverso la ricerca dei cinque artisti.
Vuole fare qualche esempio?
La presenza nei quadri della pittrice messicana di segni e di simboli, arcaici e contemporanei, provenienti da cultura alta e bassa, crea una lontana parentela con il linguaggio di Mimmo Paladino. Il sarcasmo e l’ironia di molti lavori sembrano connettersi con l’opera di Sandro Chia. Il problema dell’identità, risolta sul versante di un genius loci capace di dialogare con respiro internazionale con i territori della propria antropologia, crea una relazione con la pittura di Enzo Cucchi. E ancora, l’elemento ornamentale collega nel suo svolgimento astratto la pittrice con le architetture visive di Nicola De Maria. E infine esplicita risulta la consonanza con Francesco Clemente, confermata nella sistematica preferenza dell’autoritratto, nell’ossessione del proprio corpo, nell’idea di mutilazione che rimanda per certi versi a Schiele.
“Nomade” dell’arte, dunque, Frida seppe guardarsi intorno e prelevare stili e oggetti a seconda dell’incontro casuale o della curiosa ricerca.
In Frida Kahlo il nomadismo sconfina sempre nell’esotico, dato anche il contesto di natura tropicale che la circondava. Se è vero che lei visse in una città mostruosa come Città del Messico, che già allora contava alcuni milioni di abitanti, è pur vero che poi il Paese sprofondava nello Yucatan, nell’antichità Maya e Azteca, nelle grandi foreste, in un’area tropicale che aveva a che fare con la forza e l’erotismo della natura.