Può capitare che alcuni artisti (ne è un esempio emblematico Van Gogh) non siano riusciti, fin tanto che restarono in vita, a vendere opere che, una volta morti, raggiunsero quotazioni da capogiro, ma può accadere anche l’esatto contrario, ovvero che le stesse opere che hanno portato al successo il pittore vivente, vengano impietosamente trascurate dopo la sua scomparsa.
E’ questo il caso di Filippo De Pisis, uno dei massimi interpreti della pittura italiana della prima metà del Novecento, che dopo aver toccato una grande fama nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta, venne ignorato a favore di altri artisti a lui contemporanei. Non è infatti da molto che la produzione del pittore di origine ferrarese ha ritrovato la giusta considerazione e dignità dopo un periodo d’immeritato oblio.
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Forse proprio i disegni, ancor più degli oli, rivelano chiaramente che l’arte di De Pisis, come ben sottolinea Elena Pontiggia, “ha un unico soggetto. Ragazzi, nature morte, paesaggi, figure sono le maschere, o le apparenze mutevoli, di un’unica, incessante meditatio vitae, che poi è una meditatio mortis.” Tanto nei suoi scritti quanto nei dipinti aleggia infatti una vena malinconica e a tratti dolorosa: ogni cosa, sia esso un fiore, un frutto, un efebo, un paesaggio, ha un unico significato, un unico destino, quello di essere un attimo fuggente destinato inesorabilmente a mutare e a morire. Anche in questo De Pisis differisce dalla descrizione dell’attimo scientifico ed atmosferico degli impressionisti, nonché dalla metafisica di De Chirico e di Savinio, con i quali strinse un intenso rapporto. Non c’è eterna proiezione negli universali, come accade nei metafisici. Non c’è la gioia, impressionista, di godere dell’istante fuggitivo per poterlo eternare nella propria mente e, se ciò risultasse possibile, nella pittura. Le virgole di luce, i fermenti luminosi degli impressionisti – che rimangono il centro ideale da cui diparte il suo sguardo – è materia che nei suoi dipinte permane frazionata, ma decade, si piega, si strugge, si scioglie, sfiorisce a fronte alla realtà che contiene solo segni di morte. De Pisis, concettualmente e tecnicamente è un pittore del disfacimento di un secolo e di una civiltà che sono in grado di esporre soltanto pensieri negativi. La Nausea di Sartre e, successivamente, La noia di Moravia sono idealmente i testi a cui guardare per entrare nei dipinti di De Pisis e viceversa. La realtà che si annulla, diviene nauseabonda e insignificante. Tutto perde un senso, anche le città panoramiche -come Parigi -, o i corpi nudi dei suoi giovani modelli concupiti sessualmente, ma già assegnati a un terribile decadimento che si presenta contemporaneamente all’idea del piacere di osservare. Il percorso del ferrarese, pittoricamente post-impressionista e filosoficamente esistenzialista, restò sempre e instancabilmente autonomo e personale. Conobbe sì moltissimi artisti provenienti da diverse esperienze pittoriche, viaggiò moltissimo trasferendosi di volta in volta a Roma, Parigi, Londra, Venezia e Milano, entrando così in contatto con realtà sempre differenti, ma mai rinnegò la strada imboccata dapprima tramite la scrittura e successivamente attraverso la pittura.
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NEL VIDEO UN VIAGGIO TRA LE OPERE DI FILIPPO DE PISIS