Nel "Caravaggio" francese c'è la figura di Artemisia Gentileschi

Il quadro trovato a Tolosa, nella sua complessità, potrebbe rivelarsi come un'opera impostata da Michelangelo Merisi, durante il suo soggiorno a Napoli e dipinta da due o tre pittori, dopo la morte del maestro. Oppure come un dipinto realizzato da qualcuno molto vicino a Caravaggio, alla maniera del maestro, con il fine di immetterlo sul mercato come opera totalmente originale

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Caravage Toulouse, Caravage Paris
 
di Maurizio Bernardelli Curuz

Dobbiamo essere sempre grati ai colleghi, ai collezionisti o ai mercanti per nuove proposte attributive nel campo del Corpus di Caravaggio, poichè studi e segnalazioni aprono strade che consentono, in ogni caso, di analizzare e di comprendere la sorprendente modalità di diffusione della maniera caravaggesca, anche grazie alle particolari tecniche utilizzate dal maestro che oggi sono, all’apparenza, oscure – anche se, in realtà non sono tali – ma che, nei primi decenni del Seicento, erano conosciute dai modelli che frequentavano lo studio, dall’allievo prediletto e da diversi colleghi pittori vicini all’artista lombardo, a partire dai Gentileschi, padre e figlia. Questo fenomeno diffusivo di una maniera, legato anche al fatto che, proprio in virtù della tecnica elaborata dal maestro, alcuni doppi quadri sono quasi certamente di Caravaggio, è il motivo per il quale tutti temono di avvicinarsi a Caravaggio, a livello di studio. Il suo successo immediato, nel campo del mercato, portò all’elaborazione di opere svolte alla maniera di Caravaggio, negli stessi anni in cui lui era vivo. Il suo vecchio datore di lavoro, il cavalier d’Arpino, assoldò, ad esempio, Guido Reni proprio con quel fine. Contrastare Caravaggio con una pittura di emanazione caravaggista.
 
I materiali erano gli stessi; e la tecnica, una volta conosciuta, imitabile; e questo non perchè Caravaggio utilizzasse una tecnica diffusa, ma poichè alcuni pittori – tra i quali menzioniamo Orazio Gentileschi, padre della notissima Artemisia – avevano libero accesso allo studio dell’artista lombardo; si frequentavano, vedevano i dipinti, e potevano conoscere facilmente i segreti dell’atelier. Comunque sia, al di là del feticismo dell’autografia assoluta, molto spesso più legata agli appetiti del mercato che a reali esigenze di comprensione dell’autore e della sua aura, risulta oggi culturalmente determinante capire, anche attraverso materiali precedenti, contemporanei o successivi, le mutazioni genetiche dell’opera di un grande autore, quand’essa è studiata dai colleghi coevi o fatta oggetto di copia o uscita da un ambito assai vicino all’atelier.
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E veniamo al dipinto, bello e discontinuo, che raffigura Giuditta e Oloferne, trovato nella soffitta di una famiglia di Tolosa, in un piccolo deposito, chiuso da tempo, nel sottotetto. Lo studioso francese Eric Turquin – proprietario di un Centro per lo studio dei dipinti –  con l’avallo di alcuni colleghi, lo attribuisce a Caravaggio. Le Figaro, riprendendo le dichiarazioni di Turquin, sostiene che il lavoro presentato in queste ore a Parigi sarebbe l’originale perduto di una seconda redazione di Giuditta e Oloferne, seconda redazione realizzata a Napoli, attorno al 1607, quando Merisi, dopo aver ucciso in un duello Ranuccio Tomassoni, fu costretto a precipitosa fuga che lo portò prima nei feudi dei Colonna, poi nella casa partenopea di Costanza Sforza Colonna, la marchesa che l’avrebbe sempre protetto, dall’infanzia a Caravaggio-Milano alle giovanili vicissitudini romane dell’enfat-gatè; quindi lungo le vie dell’Italia centrale; e poi, giù, in Campania e a Malta, fino all’ultimo viaggio, in nave, verso la capitale pontificia, durante il quale Caravaggio trovò disperatamente la morte, inseguendo, a piedi, sulle rive del Tirreno, la feluca che viaggiava con i suoi quadri.
 
E’ nella Napoli che Costanza Colonna aveva trasformato nel proprio nuovo quartier generale, che Michelangelo Merisi avrebbe realizzato una seconda versione di Giuditta e Oloferne. “Versione perduta – annota Le Figaro – che oggi può così essere trovata. Il quadro è menzionato nel 1607 in una lettera di Frans Pourbus il Giovane. Questo pittore fiammingo fu chiamato a Napoli per autenticare dipinti del principe di Conca. La seconda versione di Giuditta e Oloferne allora probabilmente apparteneva a due suoi colleghi nordici: Abraham Vinck e Louis Finson. Anche in questo caso, la tela è descritta nel testamento di questo Finson, nel 1617. Prima di morire, Finson realizzò una copia più fedele possibile, secondo le proprie capacità tecniche.  Questo lavoro è permanentemente esposto, sempre a Napoli, nel palazzo Zevallos, nelle collezioni del gruppo bancario europeo Intesa Sanpaolo”.
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Allora ricapitoliamo. Caravaggio dipinge una prima scena dedicata a Giuditta e Oloferne, nel 1599, oggi conservata a Palazzo Barberini, a Roma. E’ un lavoro strepitoso. Attorno al 1607, a Napoli, Caravaggio realizzerebbe una seconda versione. La presenza del quadro intitolato Giuditta e Oloferne è testimoniata nel 1607 da Pourbus. Il quadro è stato acquistato da Finson, un pittore-mercante d’arte fiammingo, che poi si trasferisce ad Aix. L’acquisto avviene a ridosso della fuga di Caravaggio a Malta. L’ipotesi dei francesi è che il dipinto detenuto da Finson, ritrovato poi in una soffitta di Tolosa e appartenente ai discendenti di un graduato napoleonico –  sia quello presentato in queste ore.  Al punto che lo Stato francese ne ha bloccato la possibile esportazione, in attesa di accertamenti.
Il quadro pubblicato da Le Figaro presenta un’altissima qualità a livello della figura di Giuditta, un disastroso Oloferne – la cui testa è una piadina con i denti digrignati – e una vecchia gozzuta, la cui descrizione è talmente analitica da sfiorare non tanto la pittura caricata – presente in Caravaggio, attraverso gli antichi esempi di Leonardo – quanto una sorta di espressionismo grottesco. La temperie è quella caravaggesca e auguriamo allo studioso Eric Turquin le massime soddisfazioni. Io ne lodo il lavoro, nonostante io proponga un’altra via, che non sottovaluta comunque il quadro e le intuizioni di Turquin. Sempre con il massimo rispetto possibile. Ora l’opera è al centro di numerose verifiche. Iconografiche, di laboratorio, confronti. Non per nulla questo complesso lavoro è chiamato processo attributivo.
Ho lavorato, in queste ore, non contando ancora su una visione diretta dell’opera, ma su materiale fotografico, percorrendo due fronti di indagine. Il primo, per noi più semplice, considerati i lavori di analisi svolti sui disegni di Caravaggio, – opera della collega Adriana Conconi Fedrigolli e mia – si basa sull’individuazione di continuità o discontinuità strutturali nel dipinto francese, rispetto alle opere autografe del maestro. Questo lavoro è possibile anche da Brescia, poichè ci si basa sulle varianti o sui cardinali immoti delle strutture disegnative. La seconda verifica riguarda la tabella cromatica relativa alle modalità di permeazione pittorica dei valori colorati della luce. In questo ambito attendiamo di vedere il quadro direttamente poichè ogni fotografia può mutare i valori tonali effettivi. Ma anticipiamo una prima impressione, basata sulle fotografie: l’autore (o, come ritengo, gli autori) del dipinto di Tolosa non seguono le regole della pittura tonale, alla base della formazione di Caravaggio che uniformava il tutto nel pieno rispetto cromatico della fonte luminosa principale e dei suoi riverberi. Forse i personaggi appaiono così “ritagliati”, perchè realizzati in tempi successsivi e in ambienti con luci diverse.
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Nella prima versione di Giuditta e Oloferne, quella del 1599, qui sopra, il bianco è permeato da un colore che definiremo, semplicemente, sabbia. Il colore caldo di questa luce principale – una luce solare, ricca di terra di Siena chiara – si distribusce in ogni angolo del bianco. Mentre più parzialmente essa appare sul letto di Oloferne, perchè in ombra. In questa sensibilità cromatica, Caravaggio è lombardissimo, venetissimo. Il quadro francese, a una prima osservazione, sembra invece dipinto in tre stanze diverse perchè, a quanto pare, la colorazione è molto variata, a livello di ogni singola figura.
Facciamo precedere l’esame strutturale, da un’annotazione. Da quanto è possibile vedere, l’opera esce certamente da un atelier professionale di alto livello, una o due botteghe di professionisti. Offriamo questa annotazione a soddisfazione degli scopritori e degli studiosi francesi o italiani che ascrivono l’opera al maestro lombardo.
Ma la qualità altissima dei materiali è poi messa in dubbio non da rilievi tecnici sull’uso dal colore, quanto da cadute plastiche soprattutto a livello del volto e del corpo di Oloferne. La figura di Oloferne non sarebbe mai stata dipinta da Caravaggio in quel modo. La testa spiccata dal volto ha qualcosa di tragicomico. Caravaggio non era grottesco. Forse l’unica figura eccessivamente caricata in un registro comico-grottesco è quella di uno dei Bari, protagonista di uno dei suoi primi dipinti romani. Michelangelo Merisi era invece spintamente, dolorosamente drammatico. Questo per dire: notiamo la lavorazione di materiali di alta qualità, a fronte di esiti pittorici, come quello relativo alla figura nuda di Oloferne, che si rivelano, in alcuni punti, di bassa qualità strutturale. Poi il valore si innalza un poco, spostandoci alla nostra destra, come se sul quadro fosse giunta la mano di un secondo pittore. La vecchia serva è caravaggesca, ma è oltre Caravaggio. E’ una figura di genere, per quanto discretamente eseguita sotto il profilo tecnico.  La malattia del gozzo è normalmente sottolineata da Caravaggio con altri esiti. Egli non è interessato al monstrum.  Poi quelle linee infinite che costituiscono la texture della pelle della vecchia donna, sono il lavoro di un pittore analitico. Quindi la terza figura, la giovane Giuditta. Un ritratto sublime. Qui sembra entrato in campo una terzo pittore, di straordinarie capacità. Qualcuno di molto diverso dal povero artista che è non è stato capace di dare nobiltà corporea a Oloferne.  Ora se mentre i primi due soggetti arrancano, con esiti diversi, per prendere la direzione della “maniera di Caravaggio” – per maniera si intendeva ciò che oggi chiamiamo stile, anche se spesso ci dimentichiamo che nello stile entrano pure le modalità d’uso dei materiali, mentre esso è inteso oggi come sviluppo di una grafia pittorica-  il terzo è una vetta sublime. Al punto che siamo portati a trascurare il bassissimo livello di Oloferne, la qualità non elevatissima della vecchia serva e un’impaginazione dei personaggi, tutto sommato non eccelsa, perchè siamo attratti esclusivamente dallo sguardo magnetico di Giuditta. Tutto ciò che ruota attorno a lei, scompare.
 
Allora: Giuditta l’ha dipinta Caravaggio e le altre due figure sono di recupero? Oppure qualcuno completò un’opera che sembra non sia sia stesa dalla stessa mano, ma che nasca dalla convergenza operativa di almeno due pittori, se non tre, uno a figura? E chi è l’eccelso artista della terza figura? Caravaggesca sì, ma non di Caravaggio.
Un quadro impostato da Caravaggio a livello di ingombri, poi concluso da altri, a causa delle vicissitudini che colpirono l’artista? Un dipinto realizzato alla maniera di Caravaggio, da qualcuno che lo conosceva molto bene? Non sarebbe un aspetto del quale dovremmo stupirci. Botteghe o cerchie completavano quadri dei maestri, che fossero ancora in vita o già morti. E’ il caso del ruolo svolto da Giulio Romano rispetto a Raffaello. Dipinti ritenuti di Raffaello sono in realtà, senza dubbio, di Giulio Romano, ma appaiono nei musei e sui cataloghi con una didascalia esclusivamente dedicata all’Urbinate. Eppure ciò importa fino a un certo punto. Giulio Romano lì agì come un uomo della Factory di Warhol. Quante opere sono di Warhol e quanti della factory?
I diversi valori cromatici e stilistici lascerebbero indendere, sul quadro di Tolosa, una convergenza di artisti che abbiano voluto produrre un quadro non come caravaggisti di derivazione, ma utilizzando, in modo mimetico, la stessa maniera del maestro. Diversi, rispetto a Caravaggio, sono però, a mio giudizio, gli accordi cromatici. La luce presenta più colorazioni, come già annotavamo, sui corpi di tre personaggi, che appaiono pertanto come ritagliati da ambienti differenziati. Ciò indurrebbe a pensare che il quadro sia stato lavorato a più mani, anche in atelier diversi e forse in periodi diversi, nel tentativo di perfezionare l’opera, di avvicinarla quanto più più possibile a quella del maestro. L’ultimo pittore non ha tenuto conto della necessità di armonizzare la luce, accarezzando – come avrebbe dovuto – i personaggi con il medesimo tono, secondo una procedura che era sempre stata seguita da Caravaggio – pittore formatosi nella scia dell’arte veneta – così attenta, a partire da Bellini-Giorgione e dispiegandosi poi in Tiziano, Veronese e Tintoretto, a far permeare ogni punto dalla luce colorata.
Il quadro francese presenta poi diversi rapporti proporzionali dei volti. Ogni artista, a meno che non copi un’opera, importa nel dipinto di imitazione i propri canoni naturali, pur cercando di adeguarli a quelli del maestro evocato.
Allora lavoriamo sulla terza figura, quella di Giuditta, che si colloca a un punto qualitativamente superiore, molto vicino a quello di Caravaggio. La figura, per quanto caravaggesca, presenta alcuni indizi che non possono essere trascurati, quali i rapporti che esistono tra le diverse parti del volto. I rapporti fisionomici, nella figura della giovane donna, sono quelli di Artemisia Gentileschi (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, 14 giugno 1653) . L’ipotesi? Artemisia viene chiamata a concludere un quadro impostato, forse in modo molto sommario, dal maestro lombardo, e portato avanti da altri, durante il suo soggiorno a Malta o dopo la sua morte? E se il quadro fosse solo stato impostato da Caravaggio, avanzato da un paio di pittori di scarso livello e concluso da Artemisia Gentileschi, chiamata dal committente a produrre qualcosa di strepitoso, sotto il profilo dell’aderenza a Merisi? Non è un’ipotesi macchinosa. La realtà della vita è sempre più complessa dei manualetti di storia dell’arte, specie rispetto a un’esistenza travagliata come quella di Caravaggio. Nessuno avrebbe buttato un Caravaggio nemmeno appena abbozzato. Caravaggio, per organizzare la fuga e il passaggio a Malta, operazioni sempre sovrintese dalla marchesa Costanza, aveva bisogno di denaro. Avrebbe pertanto autorizzato qualcuno a concludere un quadro appena impostato, affinchè potesse essere venduto come suo. Oppure si sarebbe disfatto anche di un semilavorato. Caravaggio aveva un grande bisogno di denaro. Pensava di rifondare la propria vita a Malta. Di essere onorato come cavaliere. Di ottenere quello status di nobiltà che aveva parzialmente, dalla linea materna, ma che non poteva esibire, a causa delle umili origini del padre.
Con la collega Adriana Conconi Fedrigolli ho lavorato in massima applicazione allo studio dedicato ai disegni del maestro, redatti nel periodo di formazione di Michelangelo Merisi, nella bottega di Peterzano. Da ciò risulta che esistono, come per tutti gli altri pittori, costanti imprescindibili, rapporti che sono gli stessi che oggi consentono a un computer dell’Fbi di trovare il volto di un terrorista, inserendone la fotografia in un computer. Rapporti naso, bocca, occhi, espressioni, che non mutano nella vita e non mutano nei volti dipinti da ogni pittore. Pensiamo ai canoni eccentrici di El Greco e ai suoi volti altissimi. O, al contrario, ai volti schiacciati di Rembrandt. Il canone facciale è dirimente. Ebbene. Sotto il profilo del canone proporzionale, la figura femminile del quadro di Tolosa rinvia alla pittura di Artemisia Gentileschi, com’è ben visibile dai confronti strutturali che abbiamo instaurato nelle slide.
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I punti di contatto tra la figura del quadro francese e la Santa Caterina di Artemisia Gentileschi e, pure, dell’Autoritratto mentre suona il liuto, sono numerosi, come potete osservare nei raffronti delle immagini, da noi predisposti rapidamente, nel corso della notte scorsa. Punti di sovrapponibilità sotto il profilo della costruzione della struttura facciale. Mento tondo con fossetta; bocca carnosa, con una piega innalzata nella parte sinistra; naso modellato, con sella nella parte superiore, ombra del naso che si proietta nello stesso modo sul labbro; padiglione auricolare con la medesima inclinazione e una forma non perfetta delle volute auricolari. Analoga, nonostante uno dei due busti sia reclinato, mentre l’altro eretto, la linea posteriore del collo. Considerata l’amicizia di Orazio Gentileschi con Caravaggio, non è escluso che l’opera sia stata realizzata nella bottega del padre di Artemisia, con l’apporto fondamentale della pittrice. O meglio: sia un’opera della pittrice, che ha contato su uno o due aiuti – acerbissimo è il volto di Oloferne, migliore è l’anziana serva –  completando poi la scena con la propria figura, che assume una notevole evidenza, quasi che la donna proclamasse la propria centralità e la propria dominanza. Perchè Artemisia sarebbe intervenuta in questo modo? Perchè riprendere, in aderenza, la maniera di Caravaggio quand’ella aveva già imboccato la via del dialogo costruttivo, creando un proprio stile autonomo? La spiegazione può risiedere nel fatto che pochi, come Artemisia, potevano conoscere così direttamente la maniera di Merisi. Suo padre e Caravaggio erano amici e colleghi. E  le opere alla maniera di Caravaggio, che sembrassero del maestro, erano oggetto di una forte richiesta. Sappiamo bene che Artemisia, dopo il processo per violenza sessuale (1611), nel corso del quale il collega del padre, Agostino Tassi, aveva cercato di farla passare per donna di facili costumi,  aveva affrontato un matrimonio riparatore con un uomo senza qualità ed era partita per Firenze, dove aveva a carico, economicamente, la famiglia.
Anche quando giunse a Napoli – ed ecco Napoli, quella Napoli ricordata da Le Figaro, ma anche la Napoli di Costanza Colonna che certamente conservava opere non finite dal maestro -, nel 1530, le sue condizioni economiche risultavano migliorate seppur instabilmente. E’ pertanto possibile che la pittrice abbia accettato, in un periodo precedente, di completare un quadro alla maniera di Caravaggio, affinchè potesse essere facilmente venduto. Un dato importante. Louis Finson (noto anche come Ludovicus Finsonius) (Bruges, 1580 – Amsterdam, 1617) compì un lungo viaggio in Italia, che toccò prima Roma e poi Napoli. In quest’ultima località entrò in contatto con la pittura di Caravaggio e, anzi, fu il primo pittore fiammingo che ne fu influenzato. Ora: Caravaggio muore nel 1610. Finson non può che conoscere la protettrice del maestro. Forse acquisisce opere incompiute. Forse è desiderio della marchesa che siano portate a termine.
Ritornato ad Aix nel 1613, esegue diversi ritratti e riceve l’incarico di dipingere per la cattedrale l’Incredulità di san Tommaso e nel 1614, per le Saint-Trophime ad Arles, il Martirio di santo Stefano e l’Adorazione dei Magi.
In ogni caso Louis Finson si occupò anche del commercio di opere d’arte: in comproprietà col mercante di Amsterdam Abraham Vinck possedeva, appunto, due Caravaggio o presunti tali: una Giuditta e Oloferne e la Madonna del Rosario ora conservata a Vienna. Essendo un pittore mercante non può essere escluso il fatto che egli abbia portato o fatto portare a termine- e messo a reddito – opere impostate da Caravaggio e non concluse a causa dell’esilio maltese o della morte: e che abbia pure assecondato rifacimenti di dipinti, nello stile di Caravaggio, prima cercando di concludere egli stesso un’opera impostata dal maestro, poi chiamando un’artista come la Gentileschi, considerando i bassi esiti dei due primi personaggi. Un aspetto da non sottovalutare è il fatto che Finson fu proprietario della Madonna con Rosario del Caravaggio. Ora seguiamo la storia della Madonna del Rosario perchè ci appare molto chiaro cosa può essere avvenuto anche con Giuditta e Oloferne di Tolosa. La Madonna del Rosario fu realizzata da Caravaggio, forse per la famiglia di Costanza Colonna che vi apparirebbe, interpretando la Madonna. Non è noto quando Caravaggio cominciò a dipingere questo splendido quadro, ma, se si accede alla tesi, del resto maggioritaria, che vuole il dipinto eseguito a Napoli, la lavorazione dev’essere presumibilmente avvenuta tra l’8 gennaio e la metà di luglio del 1607, cioè tra il saldo ad opera conclusa per le Sette opere di Misericordia e la partenza del pittore per Malta.
Il quadro della Madonna del Rosario poco dopo dalla sua esecuzione, fu quindi, per motivazioni non ancora chiare, messo in vendita e difatti, come testimoniato da Pourbus, nel settembre del 1607 è già nelle mani del pittore-mercante Finson. Ma perchè fu venduto? La risposta è semplice. E’ poco noto l’immenso sforzo economico che dovette essere affrontato da Costanza Sforza Colonna per l’operazione maltese. Doveva salvare Michelangelo Merisi da sicura condanna capitale e il proprio figlio, che si era messo in grossi guai a Venezia, con maneggi economici all’interno dell’ordine di Malta. I Colonna avevano parenti potentissimi nell’ordine, ma il trasferimento e l’accoglimento dei due amati familiari (Michelangelo Merisi tale era considerato da Costanza ), doveva aver costi elevati. E’ pertanto possibile che Caravaggio abbia contribuito alle spese generali affidando a Costanza la vendita di alcuni dipinti conclusi o abbozzati.
Ora si può pensare cbe Finson abbia acquistato due opere, com’è testimoniato da Pourbus: una prima vagamente impostata (Giuditta e Oloferne) la seconda, la Madonna del Rosario, conclusa. Si può pensare che un abbozzo risultasse di valore inferiore rispetto a un quadro finito. Per cui egli intervenne in due momenti. Forse in un primo momento personalmente, poi, più avanti coinvolgendo i Gentileschi. Per questo il dipinto di Tolosa, per quanto sfugga a un’attribuzione completa a Caravaggio, non deve essere assolutamente sottovalutato. Nè essere oggetto di quei sì o di quei no tranchant, che sembrano sempre frutto delle battaglie di potere tra alcuni studiosi di Caravaggio, maggiormente interessati a tessere alleanze o a elidere nemici, piuttosto che, umilmente, a confrontarsi con la complessità della pittura e della vita.
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CONCLUSIONE TEMPORANEA. Il quadro trovato a Tolosa, nella sua complessità, potrebbe rivelarsi come un’opera impostata da Michelangelo Merisi, durante il suo soggiorno a Napoli, venduta con la Madonna del Rosario, per finanziare la sua partenza per Malta, e dipinto poi da due o tre pittori, in un periodo che va dal 1607 agli anni successivi alla morte del maestro (1610). Da valutare anche la possibilità che si tratti di un dipinto realizzato da qualcuno molto vicino a Caravaggio, alla maniera del maestro, con il fine di immetterlo sul mercato come opera totalmente originale. Uno di questi artisti sarebbe, come dimostrano i canoni strutturali del volto di Giuditta, Artemisia Gentileschi, grande pittrice che conosceva Caravaggio. Orazio Gentileschi, padre di Artemisia e Michelangelo Merisi erano amici, si frequentavano e si cambiavano elementi di scena. Finson, pittore e mercante stabilitosi poi ad Aix, aveva compiuto un lungo viaggio in Italia. Dovette entrare certamente in contatto con Costanza Sforza Colonna, la marchesa di Caravaggio, residente a Napoli e probabilmente proprietaria di alcune opere incompiute del maestro. Non è escluso che Giuditta e Oloferne di Tolosa sia stata oggetto di un completamento o di un rifacimento alla maniera di Caravaggio, con l’apporto determinante di Artemisia Gentileschi. Con questo non si intende che l’opera sia stata eseguita con lo stile di Artemisia Gentileschi; ma che la pittrice abbia mimeticamente eseguito parte del dipinto, secondo lo stile di Caravaggio, assecondando precise richieste di mercato. Analogie strette appaiono tra il confronto del suo canone strutturale relativo alla costruzione dei visi e il volto di Giuditta nel quadro di Tolosa.

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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa