Ogni colore che noi vediamo nasce dall’influenza del suo vicino”
Sono costretto a continue trasformazioni, perché tutto cresce e rinverdisce. A forza di trasformazioni, io seguo la natura senza poterla afferrare, e poi questo fiume che scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente.”
Claude Monet
Sono, questi, due degli aforismi più conosciuti e significativi di Oscar Claude Monet, “padre” ed esponente più celebre dell’Impressionismo Nasce a Parigi il 14 novembre 1840 e muore il 16 dicembre 1926 a Giverny
Monet, i segreti tecnici del grande impressionista
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Come dipingeva Claude Monet? Le modalità tecniche del grande pittore impressionista non possono essere sottovalutate in uno studio comparato che porti alla conoscenza del rapporto tra “modalità del fare” e prodotto finale. L’équipe di Stilearte, accanto a testimonianze e fonti, ha considerato la visione diretta di filmati, spezzoni e documentari che hanno come oggetto il maggior pittore impressionista, il grande occhio, la grande retina. E i risultati sono piuttosto interessanti. Nello spezzone del filmato che proponiamo in questa pagina risulta molto chiaro l’approccio alla tela del pittore ed emerge la postura assunta di fronte alla tela e la posizione della mano sul pennello, in grado di originare quelle “macchie” di colore che hanno la funzione, nella giustapposizione tonale delle stesse, di creare un movimento notevole all’interno della struttura del dipinto. Come appare dal filmato – e come è testimoniato, in modo convergente da dipinti in cui Monet è soggetto dell’opera – l’artista impugnava il pennello verso la parte estrema, quella più sottile, utilizzandolo pertanto come una bacchetta.
La distanza dall’impugnatura bassa, vicino alle setole, gli permetteva di raggiungere una minor incisività disegnativa a favore di un composizione sfocata, per macchia. La somma dei tocchi di pennello, guidato alla distanza, creava quella voluta imprecisione del segno che si componeva invece in maniera perfetta. alla distanza. Il pennello brandito come un fioretto, permette infatti di usufruire del disordine creativo provocato da una certa oscillazione e di sfocare, in una visione ravvicinata, il dipinto, affinché la somma delle sfocature divenga invece, a una certa distanza, messa a fuoco, dinamica e perfetta. L’uso di un pennello dal manico lungo – oltre ad evitare a Monet una controproducente precisione disegnativa – aveva anche la funzione di fungere da distanziatore che consentisse all’artista di stendere i colori e di vedere immediatamente l’effetto della stesura, senza dover continuamente arretrare per controllarne il punto di messa a fuoco. Frutto, questo, di un notevole esercizio che porta al raggiungimento di un obiettivo di estremo equilibrio sotto il profilo dell’ergonomia pittorica. Sotto il profilo della scelta del pennello possiamo notare, attraverso l’ingrandimento dei dipinti, che Monet, ma pure gli altri “compagni di strada” non usavano con frequenza setole rastremate – cioè il pennello con setole tagliare a forma di coda – ma prediligevano pennelli con setole quadrate e compatte, che hanno lasciato rettangoli e quadrati sulla superficie pittorica, che ci componeva così di tasselli di colore, simili, per intenderci, a quelli dei mosaici. Tasselli che non sono comunque giustapposti, ma che vengono poi strisciati e allungati. I dettagli venivano realizzati poi di punta o di costa, laddove l’intervento richiedesse una pennellata più minuta.
Se Monet impugnava il pennello verso l’estremità opposta al blocco delle setole, Van Gogh lo racchiudeva tra le dita in un punto più vicino alle setole stesse – come reggiamo una penna, per scrivere – e ciò perché la matrice formativa di Van Gogh è fortemente connotata dal disegno. Per disegnare è necessaria una precisione ottenibile soltanto se ci si avvicina alla punta della matita. Molti segni della pittura vangoghiana procedono infatti come accostamento di linee cromatiche, rette, flesse, ondeggianti, come “fantasmi della matita”. Egli utilizzava infatti una tecnica (olio su tela), mosso ancora dalle modalità d’approccio al disegno. Quindi: impugnatura ravvicinata e segno netto, leggibile. Ma torniamo al grande occhio monetiano e al rapporto mano, pennello, tela e ai tempi di stesura. Da quanto risulta dalle fotografia o dai filmati, Monet tendeva a collocarsi non di fronte al soggetto da riprendere, ma di lato, formando un angolo retto ai cui due estremi erano collocati da un lato la tela e dall’altro il paesaggio da osservare, mentre Monet si collocava come vertice dell’angolo stesso. Tela e oggetto della ripresa non si trovavano sulla stessa linea – e non era soltanto una questione di superare un possibile impedimento visivo causato dalla sovrapposizione tra tela e paesaggio. Monet guardava, a destra di sé, il soggetto da dipingere,; elaborava rapidamente una sintesi – che non è mai fotograficamente mimetica come nella visione frontale – e riportava, di fronte a sé, l’impressione, attraverso il colore.
Diverso è l’atteggiamento di chi pone la tela tra sè e il paesaggio da riprodurre. Poichè questa posizione visiva consente di raggiungere più una precisione topografica che una rielaborazione dell’immagine permessa dalla visione, dallo stacco e dal successivo riporto della pennellata sul supporto. Osserviamo questo filmato per comprendere meglio quanto abbiamo finora espresso.
Il segreto tecnico di Monet
L’ingrandimento offerto da uno dei quadri di ninfee ci consente di vedere perfettamente le pennellate, facendo scorrere lo zoom in ogni parte del dipinto (cliccare sul link qui sotto). E’ possibile notare, nel Monet maturo, un effetto di trascinamento del colore attraverso pennelli piatti, sulla superficie. Da evidenziare un altro aspetto fondamentale che sfata il mito che i quadri fossero realizzati in una sola seduta. Se osserviamo nella parte bassa del dipinto vediamo che il colore di base del lago è blu scuro. Monet ha lasciato asciugare la prima preparazione e ha poi sovrapposto, a film pittorico asciutto, una pennellata trascinata color bianco sporco, che ha creato i riflessi della luce. Da sottolineare anche il fatto che, con la direzione della pennellata, l’artista tendeva a suggerire la forma, con pochi o un sol tratto di trascinamento del colore stesso.
www.christies.com/lotfinder/ZoomImage.aspx?image=http://www.christies.com/lotfinderimages/d57903/d5790360&IntObjectID=5790360
Accanto a queste considerazioni, vanno aggiunte le modalità di approccio temporale alla tela. Com’è noto, la precisione luministica e cromatica del maestro francese, induceva normalmente Monet a più sedute di posa, compiute alla stessa ora. Egli intendeva, infatti, catturare l’istante, sicché, in molti casi – come avveniva per i dipinti conservati nella celeberrima barca utilizzata per soggetti fluviali – sul retro del quadro veniva segnata l’ora della prima o della seconda posa, affinchè la ripresa potesse svolgersi, nelle stesse condizioni, il giorno successivo. E’ certo, poi, che l’artista intervenisse in studio con le ultime pennellate di finitura, cioè nelle condizioni di luce di un luogo luminoso eppure chiuso. Essendo i quadri destinati ad essere esposti in sale o stanze – e non all’aperto – dov’erano avvenute le principali sedute di stesura – era necessario finire i quadri in un luogo che avesse analogie con quello in cui il dipinto sarebbe stato definitivamente esposto.
La ripresa en plein air, tende infatti, a causa della luce intensa che comunque – anche in presenza di ombrelli o tende – irrora il supporto a far sembrare più vivi i colori stesi sulla trama. Portando il quadro in un luogo riparato, come in un edificio, i colori appaiono molto più scuri. Per quanto Monet correggesse questo naturale errore percettivo, causato dalla diversa quantità di luce negli spazi apaerti e in quelli chiusi, interveniva in studio per un ultimo accomodamento dei valori luminosi, aumentando evidentemente i contrasti, soprattutto “in levare”, rischiarando gli impasti di luce, tenuto conto anche del fatto che, dopo l’asciugatura, il colore ad olio tende a diventare meno vibrante e brillante. Ultimi colpi di fioretto verso le gamme del bianco intriso di vibrazioni cromatiche. (maurizio bernardelli curuz).
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