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Egon Schiele condannato per corruzione


Essere artista equivale a declinare la propria appartenenza d’elezione alla schiera del superominismo della fragilità. Laddove la fede strenua, incrollabile nell’urgenza creativa delle proprie opere, nell’impossibilità (spesso mista all’incredulità) a credere che la propria arte non sia quantomeno necessaria si scontra con l’incomprensione, la grettezza, le fatiche del sopravvivere. Un quadro tutto sommato senza tempo, i cui protagonisti hanno abitato e abitano epoche diverse, figlie più o meno legittime di una progenie che condivide virtù e bassezze.

Egon Schiele, nella sua breve e tormentata vita (il pittore austriaco nacque il 12 giugno 1890 e morì il 31 ottobre del 1918) assaporò fino in fondo questa condizione di disagio, di incredulità di fronte alle miserie umane della propria e dell’altrui condizione. A restituirne le sensazioni, vergate con i tratti di una penna spinta dalla stessa indomita e febbrile pulsione che ne distinse le opere, il volume Ritratto d’artista, edito da Abscondita per la collana “Miniature”. Poco più di un centinaio di pagine divise tra lettere, prose e liriche a sua firma e le pagine del Diario di Neulengbach, breve cronistoria dei 24 giorni di prigione cui Schiele fu condannato con l’infamante accusa di corruzione di minorenne e diffusione di disegni osceni. Un quadro parziale, ma incredibilmente profondo. Sintesi ideale per scavare tra le pieghe più nascoste di un precursore dello Espressionismo, che portava nell’anima segni profondi già in giovane età. E che attendeva il momento in cui il mondo avrebbe smesso di essere sordo al richiamo dei suoi quadri.

Le lettere che aprono il volume suscitano interesse su due differenti piani. Innanzitutto vi è lo Schiele quotidiano, asfissiato dal dover fare continuamente i conti con i problemi economici di chi non ha “neanche la carta da pacchi. Nessuno mi vuole aiutare?” (lettera ad Arthur Roessler del 10 gennaio 1911. Roessler, critico d’arte che fu un fervente sostenitore di Schiele, è tra i destinatari più presenti insieme ad Anton Peschka, compagno di studi di Egon e poi marito della di lui sorella Gertrude, e Oskar Reichel, medico che fu tra i mecenati del pittore). Proprio in questa lunga sequenza di missive si tocca con mano la condizione di chi era costretto a chiedere, chiedere senza sosta ai propri sostenitori. Cifre per poter lavorare, per comprare tele e colori. Ma anche semplicemente per tirare avanti. Una situazione tragica che a volte scivola nel grottesco. Come quando, sempre scrivendo a Roessler, Schiele spiega: “Caro R. R. R., vorrei farmi sistemare i denti prima dell’esposizione. Una volta Lei mi ha parlato di un dentista che potrei ritrarre per 3 denti, oppure potrei dargli un quadro. Vorrebbe scrivere a questo signore?”.
C’è poi un altro lato che emerge prepotentemente dalle lettere dell’artista, che nemmeno di fronte alle avversità rinuncia a credere nelle sue capacità. “Prima o poi nascerà una fede nei miei quadri, nei miei scritti, nei concetti che esprimo con parsimonia, ma nella forma più pregnante”. Una fede incrollabile, ma pervasa di una lucida capacità critica. “I quadri che ho realizzato finora saranno forse solo dei preamboli – non lo so -. Ne sono così insoddisfatto, se li passo in rassegna. Hanno torto quanti pensano che dipingere sia meglio di niente” (lettera a Oskar Reichel del 20 giugno 1911).

Non mancano, in questa umile caccia al vil (ma utile) denaro, accenni ai contrasti familiari, con la madre (“Viaggio per la mia professione, e mi costa meno che restare a Vienna; voglio godermi il mondo, perciò riesco a creare, ma guai a colui che mi toglie questa gioia”. Lettera a Marie Schiele del 15 luglio 1913) e con lo zio Leopold Czihaczeck. Così come i riferimenti alla guerra, agli orrori di un mondo in piena rivoluzione. Alle fatiche della vita militare. Un concentrato di orgoglio (“Dal nulla, e nessuno mi ha aiutato, devo a me stesso la mia esistenza. E’ facile quando si ha uno stipendio”) e piccole grandi debolezze. Amarezza di un cuore tumultuosamente propenso alla creazione ma costretto nei limiti angusti di un epoca ostile. Schiele non smise mai di credere nei propri quadri, ma il primo, convincente riscontro gli arrise soltanto a pochi mesi dalla morte.
Se la ricerca costante del sostentamento (in un’epoca in cui nemmeno Klimt se la passava poi troppo bene) lo avvicina ad una lunga schiera di artisti che nei secoli hanno condiviso la stessa scarsezza di risorse (tra i quali un altro celebre austriaco di nome Wolfgang Amadeus Mozart), le pagine del Diario di Neulengbach rimandano all’esperienza kafkiana (narrata nel Processo) di chi è incarcerato senza sapere il perché. Schiele si ritrova così escluso dal mondo, un reietto che lamenta la mancanza di attenzione da parte di una Vienna evidentemente sorda alle vicissitudini del pittore, al punto da non insorgere “per la mia sparizione dalla circolazione”.

Se Oscar Wilde nel De Profundis mette a nudo il suo aspetto più vero, privo di quelle mistificazioni che ne fecero un personaggio al di là dell’indiscutibile talento letterario, Schiele, pur fiaccato nell’animo, riesce lentamente a ricostruire il motivo della sua prigionia, un intimo psicodramma fatto di sequenze via via più febbrili, cui egli sembra assistere da impietrito spettatore.

L’innocente ospitalità data ad una giovinetta appena conosciuta. L’arrivo del padre di lei seguito a breve distanza da una visita della polizia. La candida dichiarazione relativa a disegni erotici che la (in)Giustizia trasforma in osceni. Schiele investiga su se stesso per capire i motivi della sua carcerazione. Di quei giorni interminabili durante i quali si rende conto di come il suo arresto non sia un malinteso. E ne prova orrore. Eppure, nemmeno le mura di una prigione possono porre un freno al suo estro creativo, che si bea dell’opportunità di avere colori, fogli e matite. Fino a quando, in una pagina datata 8 maggio 1912, può dichiarare: “24 giorni sono stato in prigione! – Ventiquattro giorni o cinquecentosettantasei ore! – Un’eternità!… Come dovrà vergognarsi di fronte a me, d’ora in poi, chiunque non abbia sofferto con me!”.

Nel mezzo, spartiacque tra lettere e diario, c’è lo Schiele scrittore, nobile vergatore di prose e liriche in cui mettere a nudo quei prodromi dell’Espressionismo che vengono riconosciuti alla sua arte pittorica. Schizzi autobiografici mescolati a istantanee di totale rapimento, quasi fosse davanti ad una delle amate tele. Sono forse queste le segrete vie del cuore di Schiele? “Io eterno bambino ho sempre seguito i passi della gente cupida e non volevo essere tra loro, dicevo; – parlavo e non parlavo, stavo in ascolto e volevo sentirli chiaramente, più chiaramente, e guardarli dentro… Io eterno bambino, – maledissi subito il denaro e ridevo accettandolo con commiserazione, l’atto tradizionale, l’imperativo di massa, l’oggetto di scambio, il denaro del profitto… Nessun affare. Tutti gli stati nascondono i pochi vivi. – Essere se stessi! – Essere se stessi!…”.