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Dante Bertocchi




A decenni dalla scomparsa, avvenuta nel giugno del 1983, permane in noi il limpido ricordo di Dante Bertocchi: la figura segaligna, il fare irruente, e quel pizzetto, ostentato a volte, che lo faceva somigliare ad uno dei celebri moschettieri. Nato a Sulzano nel 1928, la sua vita è trascorsa prevalentemente alla Fantasina di Gussago. Affinate le naturali doti creative alla scuola di Emilio Pasini, nel 1962 iniziò a esporre in seno a mostre collettive e concorsi indetti dall’Associazione Artisti Bresciani, in un tempo di particolare fervore propositivo del sodalizio di via Gramsci, subito imponendosi per quel calore umano permeante scorci cittadini o brani dei colli coronanti la frazione in cui abitava.

Sull’onda del successo ottenuto alle prime apparizioni in pubblico, nello stesso 1962 ha ordinato la prima mostra personale, ospitata dall’Aab, il successivo anno proponendosi nella Galleria dell’Accademia milanese alla quale sono seguite altre in Brescia, ma anche a Gardone Riviera, Firenze, Madonna di Campiglio, Venezia, Ancona, Milano ancora, Casale Monferrato, Diano Marina, Reggio Emilia, Lugano, Genova… alternate a partecipazioni a manifestazioni nazionali contrassegnate da ambiti riconoscimenti. Neppure è mancato l’apprezzamento di autorevoli critici, dai bresciani Elvira Cassa Salvi, Giannetto Valzelli, Luciano Spiazzi, Jo Collarcho a Mario Monteverdi, Segala, Zanollo, Lepore, Umberto Baldini, Gastone Breddo, Dino Villani… tanto fervore creativo sembra aver indotto Bertocchi a pagare con sfibrante tensione il debito verso la pittura, causa di ripetute cadute che lo hanno costretto a rimanere più volte e a lungo silenzioso.

Nonostante ciò, la sua produzione pittorica segna un percorso coerente derivante dalla appassionata partecipazione al mondo frequentato, dalla città alla plaga prossima a Cellatica. E quanto lo attrae viene riproposto nella tela con materia densa e tuttavia scabra: case, vicoli, rustici sembrano escludere la presenza umana, eppure quegli intonaci macerati, quei cieli soffocati, quelle ombre grevi, romaniche, ha osservato Mario Monteverdi, quelle luci un poco congelate posseggono una particolare e sofferta umanità, presenza potenziale, se non in atto, di quel patrimonio ideale senza cui l’arte diviene puro esercizio formalistico. Quegli angoli di antichi rioni, quelle baltresche dagli intonaci abrasi dal tempo, incisi da ante di finestra appena dischiuse proiettanti ombre profonde, intendono e trattengono l’evidenza di una umanità dolente. Non così greve appare l’atmosfera che intride i paesaggi campestri e collinari resi con tenui ma folti verdi. Posti l’uno accanto all’altro quei dipinti rendono appieno testimonianza della rodente passione per 1’arte di Dante Bertocchi, comunicandoci ancor oggi quanto gli si agitava nell’animo, talmente intenso, da sfibrarlo prematuramente.