di Francesca Baboni
[“A]h Giotto, lasciami vedere Parigi e tu, Parigi, lasciami vedere Giotto!”. Così si legge in un taccuino di Edgar Degas in riferimento a quell’estate del 1858, quando, a venticinque anni, sulla spinta dell’amico Gustave Moreau che vi si era trasferito da poco, giunge per la prima volta a Firenze, invitato dalla zia, Laura Degas, a soggiornare con lei, il marito Gennaro Bellelli e le due figliolette nell’appartamento in affitto in piazza Maria Antonia, nel nuovo quartiere del Barbano, l’odierna piazza dell’Indipendenza.
Sebbene a Firenze il pittore si dedichi allo studio dei maestri antichi, copiando opere d’arte agli Uffizi, sappiamo dalla critica recente come in realtà venga in contatto anche con il fertile ambiente del Caffè Michelangiolo, ed in particolare con Cristiano Banti, che abita nello stesso quartiere e che conosce da subito. Le tracce della presenza di Degas al celebre caffè sono note grazie alle fonti attendibilissime di Telemaco Signorini, che lo cita assieme a Moreau e ad altri francesi come assiduo frequentatore e come partecipante attivo a quel dibattito sui toni chiaroscurali che metterà a punto nel capolavoro degli anni fiorentini La famiglia Bellelli, oggi al D’Orsay.
Lo stesso Diego Martelli, critico e teorico dei Macchiaioli, scrisse a proposito del soggiorno fiorentino di Edgar che “quando per ragioni di famiglia, ed attratto dal desiderio, venne in Toscana, si trovò proprio nel suo centro, fra i suoi antenati artistici Masaccio, Botticelli, Bozzoli e il Ghirlandaio. Il suo culto diventò furore ed una massa di disegni attesta lo studio coscienzioso fatto da lui, per appropriarsi tutte le bellezze e gli insegnamenti dell’arte da loro posseduta”.
E’ proprio a casa della zia dunque che Degas realizza quella che è considerata la sintesi del suo soggiorno giovanile, opera magistrale dalla complessa e sofferta elaborazione
– numerosi sono gli studi e i bozzetti delle singole figure, anche su fogli sciolti – che non è semplice ritratto di famiglia ma evocazione psicologica, in cui coglie efficacemente le tensioni emotive di una difficile situazione domestica.
Dalle lettere di Laura al nipote traspare difatti l’infelicità di una donna dai difficili rapporti col marito (“Ho ragione di vedere sempre le cose in nero?”), che nel quadro è colto di spalle mentre la moglie si erge alta e maestosa nel suo abito scuro, statuaria e dignitosa come in un ritratto rinascimentale, assolutamente moderna, eroina di un dramma familiare. L’incomunicabilità diventa qui distanza mentale, un disagio che il pittore legge con efficacia in quello spaccato di tipico interno borghese di metà Ottocento, dove ogni oggetto domestico ha un suo significato.
Nelle lettere accorate al nipote, Laura parla di un marito “dal carattere immensamente sgradevole e disonesto” e del “timore di impazzire”. “Vivere qui con Gennaro – scrive a Edgar il 19 gennaio 1860 – di cui conosci il carattere detestabile e senza che abbia una seria occupazione è qualcosa che mi trascinerà nella tomba”. E’ questa l’atmosfera che il pittore respira nella casa dove si trova ospite e che fa rivivere all’interno di un’opera ambiziosa di grandi dimensioni, molto criticata dai contemporanei per la diversità rispetto alla sua precedente produzione.
Degas lascia Firenze nel ’59 ma vi ritorna nel ’60, lavorando ancora al quadro (le testimonianze sono però scarse e poco attendibili). La tela sarà comunque terminata quell’anno. Dalla descrizione si evince chiaramente ciò che ogni familiare pensa del pittore: Laura, molto legata e affezionata al nipote, assume una posa rigida, cosciente del talento dell’artista, mentre il marito di lei, che a stento lo sopporta, rimane sostanzialmente indifferente.
Cristiano Banti rimarrà invece talmente colpito alla vista dell’opera da citare Van Dyck nella costruzione plastica della figura imponente della donna: un dipinto classico, quindi, ma con elementi presi dal “vero”, in linea con le teorie sulla “macchia” che si svolgono in quel periodo al Caffè Michelangiolo.
Nei suoi taccuini il pittore scrive, a proposito del quadro: “Ho due cuginette a pranzo. La maggiore è veramente un fiore di bellezza; la minore ha il carattere di un diavoletto e la bontà di un angelo. Le dipingo con i loro vestiti neri e i loro grembiulini bianchi che le rendono affascinanti. Ho varie idee per lo sfondo. Vorrei ottenere una certa grazia naturale assieme a una nobiltà che non riesco bene a definire”.
Degas ammette di riferirsi, per l’impianto compositivo e il colore, a modelli fiamminghi e veneti, come appunto Van Dyck, Giorgione, Carpaccio e Veronese. L’artista si diverte dunque a giocare con tutto quello che la vecchia Accademia può ancora offrire, sfidandola però insieme dall’interno con suzioni nuove e sostituendo agli eroi del passato personaggi contemporanei, ben sintetizzati nelle loro carni e nei loro costumi.
E’ Diego Martelli che, nel 1879, registra la compenetrazione nel Degas italiano tra culto dell’antico e tensione coloristica moderna. Così infatti scrive: “Antico e moderno ad un tempo… educato a Firenze dove s’innamorò della semplicità sublime del disegno dei cinquecentisti, vide quei grandi maestri con l’occhio di un francese e, ritornato poi in Francia, modificò più che mai questo suo modo di tradurre il vero attraverso il sentimento degli antichi applicandovi una ricerca di colorazione tutta moderna”.
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