Ritto e composto, il volto sfigurato dall’angoscia che lo fa precipitare in una dimensione di larva flagellata, come se fosse al cospetto di un tribunale invisibile, l’uomo di Elio Gnutti, in una solitudine immane, attende una sentenza inappellabile. Ma i giudici sono kafkianamente assenti. E mancherà, ne siamo certi, anche l’emissione della condanna, in grado di dare, come in Dostoevskij, un senso alla colpa. La pena sta, piuttosto, nell’attesa eterna di un fine e di una fine, in un angolo di mondo privo di qualsiasi illuminazione, nel verticale mutismo del cielo. Tutto proiettato nella tragedia dell’io incomunicante – dalle tinte livide del vecchio Novecento, come in una burrasca di putrefazioni nella quale il nulla diventa termine di paragone di un anti-umanesimo che ha consegnato l’uomo a una dimensione di totale solitudine esistenziale -, Elio Gnutti denuncia la propria condizione e quella dell’uomo contemporaneo consegnata definitivamente all’angoscia. La sua è una drammatica denuncia, raggiunta attraverso l’esibizione di uomini in attesa, dal volto di bambini, conchiusi in se stessi in un autismo che non lascia aperte né porte né finestre attraverso le quali percepire il consolante calore del mondo o comunicare con chi, all’esterno, si presenta in una traiettoria convergente.
Le opere di Gnutti eternano la drammaticità silente che ha persino eliminato la contestazione estrema dell’urlo di Munch, icona ossessiva per l’artista, il punto da cui è partito. L’uomo del post-espressionismo, in una dimensione esistenzialista, non ha nemmeno la possibilità di gridare poiché non solo nessuno è in grado di poter ascoltare il suo drammatico lamento, venendogli in soccorso, ma, avendo sentito il proprio lacerante urlo di dolore perdersi nel vuoto, anche sotto il più puro profilo sonoro, non matura alcuna possibilità di salvezza legata alla parola, all’impetrazione della pietà, alla comunicazione. L’atteggiamento esplosivo dell’espressionismo – e l’ex è radice che significa proiezione all’esterno – diventa in Gnutti cronaca di un’implosione e di un progressivo sprofondamento del sembiante, un morire continuo, come dimostrano i suoi ritratti, nei quali i personaggi affondano nella materia in quanto uomini-lemuri già destinati alla disgregazione nel momento in cui si affacciano all’orizzonte o tentano, affacciando metà volto al di là di una porta, di confrontarsi con una realtà esterna dominata dall’odore sulfureo della tempesta.
La svolta nella pittura di Elio Gnutti – che, al contempo, è mutamento di un quadro percettivo e di una visione del mondo – si prospettava già all’altezza del bivio pittorico degli esordi. Le strade del suo sentire erano sostanzialmente due: la prima dominata dalla tensione a una levità poetica confortante, che assorbisse i lenimenti dalla quinta naturale; la seconda compressa da un pensiero negativo, denso di un pessimismo esistenziale che lambisce il nichilismo. Si configurava, sin dalle origini – e poi come tema ricorrente legato a trama pittorica che si basa sull’alternanza dialogica tra i due registri – una tensione al “pensiero lieve” in un sogno utopico di certezze poetiche che discendevano dall’osservazione del favoloso: paesaggi cromaticamente Nabis o corpi fauves, percorsi da spiritualissimi esseri volanti, in una dimensione di perdita della gravità, come nei giardini dell’anima in cui allignassero solo essenze spirituali ammorbidite dal rintocco argentino dei giorni di festa.
Questo periodo che definiremmo neo-chagalliano si colloca alla fine degli anni Ottanta e torna come sequenza ricorrente nell’immagine suscitata dal battito d’ali di un lepidottero che abbia nera una pagina dell’ala e l’altra multicolore; certo, si intravede in controluce, sull’ala multicolore, lo spirito di Chagall e poi dei fauves, anche se già l’autore, agli esordi, risolveva i propri dipinti in linea con una ricerca di piena autonomia del segno e degli accordi cromatici. Ciò che egli cercava era la serenità di una radura nella quale, come nelle proiezioni delle pitture sacre, si attendesse un’epifania, una rivelazione positiva. Ma lungo la strada, le radure con paesaggi lieti sui cui fondali potevamo immaginare le ombre radiose di angeli musicanti, diminuirono notevolmente e la strada della conoscenza di sé e del mondo, attraverso il medium pittorico, divenne erta, e poi cunicolo tra i roveti delle domande senza risposta che annodavano la materia in paurose proiezioni percettive, in un’implosione, senza possibilità di visione del cielo.
Gnutti è stato chiamato in direzione della selva neo-espressionista, dominata dai rinvii alla materia ardente che discende da Van Gogh – tutti ricordiamo i cieli di materia vorticosa del maestro – e dai cipressi prigionieri di un fuoco che brucia senza fiamma, fino ai luoghi desolati di Munch, nei quali il paesaggio ha ormai perso ogni romantica consolazione – sia esso suscitatore di una paurosa forza primigenia o punto pittoresco nel quale lenire l’avvelenamento di un’anima tormentata – ma diviene luogo dai colori acidi, fondale che si contorce alla violenza dell’urlo. E’ proprio il paesaggio a portare Elio Gnutti dall’ala colorata all’ala di un profondo tormento.
Sempre alla fine degli anni Ottanta i paesaggi chiaristi s’attorcono a causa di una profonda sofferenza dell’“io che guarda”, e, nel campo del ritratto, appare la serie degli ectoplasmi: volti che s’agglutinano da un mare di materia liquefatta, fremente, ondosa e fratta ad un tempo. Mauro Corradini, nel saggio dell’ottobre del 2004, ben coglie e sottolinea la duplicità nelle sequenze pittoriche di Elio Gnutti, anche nel campo dei ritratti. “Nelle ‘scene di vita’ – scrive – Gnutti sembra condensare le esperienze espressive di un intero secolo. In alcuni casi, si sofferma su personaggi femminili, inseriti in contesti da ‘gioia di vivere’, esprimendo lo stupore di fronte alla vita; altre volte, al contrario, la figura inserita nel paesaggio denuncia uno smarrimento, una perdita di sé, figura emblematica di una diversa idea di mondo e di esistenza. Costruisce Gnutti queste immagini con grandi sintesi espressive, colori non mimetici, attraverso un’invenzione linguistica e formale che rinvia alle esperienze fauves; un espressionismo rinnovato, più cupo nei toni, che solo a volte s’innalza solare attraverso le figure, evidenziato da ritmi strutturali che sembrano scattare solo a contatto con gli elementi di natura (piante, fiori), vive un’accelerazione che testimonia la quiete meditativa dell’Autore”.
Il confronto con il nordico espressionismo – filtrato letterariamente da un’intensa frequentazione degli autori del nichilismo russo – diviene stretto, in un artista dall’intenso background culturale, in grado non solo di compiere sintesi tra le diverse istanze pittoriche, ma di giungere a una propria risposta desolata, soprattutto nel campo dei ritratti maschili – che appaiono sempre più come autoritratti dell’anima – nei quali il grido di Munch viene spento a favore della piena e stoica accettazione di un silenzio che ha la forza della nausea esistenzialista, a fronte della nietzschiana morte di Dio e del tormento che divora l’uomo, al quale non rimane altro che trasformare l’angoscia in un prodotto estetico, in grado di portare consolazione attraverso la certezza composta della forma.
Elio Gnutti
Parte da Munch, ma rilegge l’uomo contemporaneo nella dimensione di una drammatica afasia. Non resta nemmeno la possibilità del grido. Come in un tribunale kafkiano nel quale la pena è attendere per sempre una sentenza che non giungerà mai