Gli archeologi scoprono industria vinicola gallo-romana. Cantina di 3mila metri quadri e villa. Produceva vino dal profumo di resina

Il vino rosso prodotto da questo vitigno, noto anche come Vinum picatum, è descritto da Plinio con un distintivo sapore resinoso, attribuito alle foreste di pini che circondavano i vigneti. Columella, invece, avanzò l'ipotesi più probabile che tale caratteristica fosse il risultato della resinatura dei vini o delle anfore sigillate con resina, una pratica comune in quel periodo
Veduta aerea dello scavo sulla riva sinistra del Rodano © Nordine Saadi, Inrap

di Redazione
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A Laveyron, lungo la riva del Rodano, gli archeologi dell’Inrap hanno portato alla luce un intrigante sito archeologico, rivelando uno stabilimento dedicato alla vinificazione risalente al I secolo d.C. Costruito su vasti edifici risalenti al I secolo a.C., il sito presenta una struttura imponente caratterizzata da mura di notevole bellezza, delineando una pianta geometrica monumentale. Posizionato strategicamente in prossimità di un antico guado e con chiare intenzioni commerciali, lo stabilimento è orientato verso il Rodano, suggerendo una connessione diretta con le attività fluviali dell’epoca. Produzione e interconnessione stretta con le vie commerciali, quindi. Laveyron, nel cui territorio è avvenuta la scoperta, è un comune di poco meno di 1000 abitanti situato nel dipartimento della Drôme della regione dell’Alvernia-Rodano-Alpi.

Veduta del sito archeologico © Christel Fraisse Inrap

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La scoperta è stata effettuata nel corso di operazioni di archeologia preventiva prescritte e monitorate dallo Stato, in particolare dalla Drac Auvergne – Rhône-Alpes e dal Servizio Archeologico Regionale, durante uno sviluppo industriale ed ecologico condotto dal Gruppo Saica. Quest’ultimo, noto come uno dei leader europei nella produzione di carta riciclata per il cartone ondulato, stava attuando un significativo progetto di modernizzazione presso il proprio sito di Saica Paper. Lo scavo, iniziato a maggio 2023 su un’area di 16.400 mq, si concluderà a metà gennaio 2024, fornendo un’opportunità unica per esplorare il passato sepolto.

Gli archeologi dell’Inrap spiegano che l’occupazione del sito risale all’età di La Tène (50-30 a.C.), come indicato da buche di palo e negativi di costruzione. Tuttavia, al momento non è possibile proporre una planimetria dettagliata, e le strutture dell’epoca sembrano suggerire un habitat con frammenti di dolia, anfore e ceramiche disseminati nelle vicinanze. La presenza di un possibile fossato, forse delimitato da una palizzata, aggiunge ulteriori elementi al contesto abitativo.

Uno dei settori della cantina. Impressi sul terreno i segni delle basi dei dolia, i panciuti contenitori nei quali veniva immesso il vino. Avevano una funzione simile a quella delle nostre botti © Laure Cassagne, Inrap

Nel I secolo a.C., si assiste alla costruzione di edifici con coperture di dimensioni variabili (56-150 mq) precedenti alla realizzazione di una vasta cantina. Nonostante la mancanza di chiare indicazioni sulla loro funzione specifica, le discariche trovate ai margini suggeriscono un utilizzo abitativo, con numerosi reperti che indicano la presenza di attività quotidiane.

“Con l’avvento dell’età augustea (27 a.C.-14 d.C.), emerge una nuova struttura sotto forma di una piccola villa, composta da tre ambienti allineati da est a ovest e aperti a sud su un cortile. – dicono gli archeologi dell’Inrap – Affiancata da marciapiedi e gallerie, questa villa sembra collegarsi organicamente al futuro sviluppo dell’azienda vinicola che la seguirà, con una delle piscine della futura struttura che invade la sua stanza più orientale.

Il fulcro dell’insediamento è rappresentato da uno straordinario stabilimento di oltre 3000 mq, costruito nel I secolo d.C. d.C. sul pendio che domina il Rodano. Questa struttura rivela una pianificazione attentamente progettata per sfruttare il terreno inclinato per scopi enologici. Le presse erano collocate in posizione elevata, mentre un terrazzo alluvionale è supportato da imponenti muri che formano una piattaforma. A sud e a nord di questa piattaforma, vasche scavate accolgono i succhi d’uva, integrati in locali di 430 mq che potrebbero funzionare come una sorta di cantina.

A sud, tre ambienti sembrano essere dedicati alla produzione dei vini, utilizzando, come testimoniato dalla storia, vari additivi dell’antichità. Queste strutture sono affiancate da gallerie che circondano un cortile spazioso di 962 mq, contribuendo a delineare l’organizzazione complessiva dello stabilimento. Situato nel territorio degli Allobrogi, un popolo gallico con confini tra l’Isère, il Rodano e le Alpi settentrionali, questo stabilimento avrebbe presumibilmente prodotto un vino di alta qualità, citato nei testi antichi come “vinum picatum,” molto apprezzato dai Romani.

Il Vino allobrogico o picatum è citato con rispetto da autori romani illustri come Plinio il Vecchio (23-79) nella sua opera “Naturalis Historia” e da Columella, contemporaneo di Plinio. Questo vitigno, la cui denominazione deriva dalla tribù celtica degli Allobroges, dominata da Giulio Cesare nel 100-44 a.C., occupava un territorio tra i fiumi Rodano e Isère, estendendosi fino al lago di Ginevra, in Savoia. Durante l’epoca della colonizzazione romana, le viti furono piantate sia sulla riva destra del Rodano, nelle attuali zone di Saint-Joseph e Côte Rôtie, sia sulla riva sinistra, nella regione di Hermitage.

Il rosso Vinum picatum, è descritto da Plinio con un distintivo sapore resinoso, attribuito alle foreste di pini che circondavano i vigneti. Columella, invece, avanzò l’ipotesi più probabile che tale caratteristica fosse il risultato della resinatura dei vini o delle anfore sigillate con resina, una pratica comune in quel periodo.

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Maurizio Bernardelli Curuz
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