di Giorgio Cortenova
[N]on c’è alcun piacere notturno nello sguardo di Hodler che al centro della tela sgrana gli occhi rotondi e sorpresi, mentre un’oscura figura avvolta in un drappo nero insiste sul suo corpo, come un incubo o un tormento del subconscio, in un panorama dai contorni freddi e gelidi. Ne La notte, del 1890, Ferdinand Hodler mette a nudo se stesso, i suoi dolori e il brivido visionario della sua arte. La sua mente aggredita dal subconscio e la sua anima tormentata dalla riva mortale di Eros si manifestano in pittura come la testimonianza di un martirio: calvario e veggenza di un amore che non potrà remunerarlo dei drammatici anni infantili e che gli verrà strappato per sempre dall’implacabile e cupo dominio della morte, tra le lune e gli astri avversi che abitano i cieli. Comunque sia, l’opera rimane la più alta testimonianza della pittura dell’artista svizzero cui il parigino Musée d’Orsay, prima, e adesso il Kunstmuseum di Berna, in collaborazione con il Museo di Budapest, hanno dedicato una splendida retrospettiva.
Hodler rimane orfano all’età di soli quindici anni e nel 1913 gli muore anche Valentin Godé-Darel, la compagna amatissima, capace di turbarlo e rincuorarlo, di smuovergli l’animo e le membra e di ripagarne la tensione con altrettanta dolcezza. La notte si sviluppa orizzontalmente, su una base di due metri e mezzo, attraverso una cura dei particolari anatomici che ha pochi uguali nella storia dell’arte. L’artista modula la pittura attraverso i bianchi e i grigi cadenzati nei toni delle terre e colloca sulla destra una figura femminile con i capelli rialzati a scoprire il collo tenero e indifeso, come un sentimento d’amore che si discioglie nella dedizione e nell’offerta.
Quel collo nudo e indifeso è una visione antica e tenera, commovente e sensuale, che genererà stupore ed entusiasmo in Puvis de Chavannes, in Picasso e in tutti coloro che hanno vissuto e ancora vivono la dimensione di una malinconia che s’infiamma nella visionarietà o ripiega nel silenzio eterno delle cose del mondo.
In ogni caso, l’opera genera scandalo e scalpore, sia per quei nudi sfacciatamente ostentati, sia per quella figura accovacciata e recline sul corpo del giovane al centro dell’opera. Ma soprattutto traccia nel panorama europeo una traiettoria di allucinazione e di visionarietà destinato a non più arrestarsi, ad incidere nell’Austria di Schiele come nella Germania dei giovani secessionisti. E’ peraltro una visionarietà il più delle volte gelida, insonne, carica di realismi a lungo coltivati nella tradizione ottocentesca e adesso pronti ad esplodere in prima linea per le terremotate vallate europee.
Questa visionarietà tagliente che incrina lo sguardo, e lo rilancia nell’interiorità in cui ogni immagine sembra isolata in una sorta di deserto dell’anima, alimenta i realismi che furono detti magici e quelli che furono definiti nuovi. In Germania Grosz, Dix, Schad, per fare solo qualche nome, furono protagonisti di una visione ferita che a sua volta feriva, coltello in bocca, i tranquilli salotti della “buona” borghesia. Feriva dall’interno, scavando tra un ruga e un ghigno il solco dell’ipocrisia che, invasiva, penetrava tra un belletto e un sorriso di maniera, un cappello a piuma e una giacca di buona sartoria. Veniva così messo in scena il teatro delle maschere sociali, ma soprattutto l’interminabile novena dei vizi che non producono gioia né alimentano squisite differenze, ma solo infangano le virtù senza restituire il sofisticato piacere della trasgressione.
Oggi una simile rasoiata tra le pieghe della psiche sembra a me l’aspetto più affascinante della recente arte cinese che ha conquistato il mercato ma che non è tutta e sempre una manifestazione esclusivamente riferibile alla grande finanza. C’è, in queste immagini, un’uguale stridente contrazione della forma, una non lontana semplificazione del cromatismo. La gran parte dei miei colleghi riferisce il loro lavoro in termini di discendenze pop, forse perché ne intravedono una sorta di stilizzazione pubblicitaria.
Non sono d’accordo. La Pop è asettica, è un’arte “alla seconda”, non lavora in riferimento alla realtà ma alla sua già avvenuta trasposizione in linguaggio: quello, appunto, della pubblicità a cui fa riferimento. Dalla realtà al linguaggio? No: da linguaggio a linguaggio. La Pop riporta al linguaggio della pittura il linguaggio della pubblicità. Invece l’arte cinese riconduce alla realtà il linguaggio pubblicitario.
Si guardino due dei protagonisti di quanto andiamo dicendo: Yue Minjun e Fang Lijun.
Provengono da regioni diverse e diversa è la loro maturazione. Ma entrambi condividono il sentimento di un presente che preme e che si manifesta come esemplare in positivo o in negativo.
E se l’esperienza della vita è tale che il cinismo, assieme al sarcasmo e allo humour nero, trionfa come un’autodifesa disperata, sull’orlo invisibile del suicidio, allora, come nel caso di Yue Minjun, un ghigno crudele si rivolge verso di noi nel corso di un’impietosa fucilazione.
Fang Lijun invece inquadra corpi che riempiono lo spazio e faccioni alla Schad che interagiscono con noi attraverso sguardi pungenti, mentre nessuno scommetterebbe un euro sulla moralità dei personaggi. Tutto ciò sviluppa una visionarietà nuova o comunque rinnovata, incline a figure che sono sagome e in quanto tali si ripetono: personaggi fissi di una visione che ritorna e che si rinnova come un incubo.
Un artista grande, che più non è tra noi, come Chen Zen, ci ricorda che la nuova visionarietà viene da lontano: anche da giardini incantati e percorsi da acque in movimento, oppure da magazzini di oggetti, veicoli, resti meccanici: e argilla rappresa sulle loro superfici. E’ visionario l’italiano Ragalzi, con i suoi alieni di ieri seduti in camera d’attesa o con le gabbie per volatili di oggi. Ma la visionarietà ci presenta anche panorami astratti, in cui la pittura, recitando se stessa, si esprime attraverso gli squarci enigmatici di uno sguardo rovesciato all’interno dell’animo: dove ritrova brividi ed enigmi, lacerazioni ed ebbrezze. E lo stesso vale per la scultura, per i mezzi fotografici, per le esperienze del corpo o le riprese cinematografiche e le video-installazioni. Si vedano quelle, magicamente esoteriche ed oniriche, di Caroline Lerch. Ma non si tralasci di tenere in memoria le grandi immagini di Botto§Bruno. O l’opera “mista” di Matteo Rossigni. E sono solo esempi tra i tanti.
Torna, corpo recitante che trabocca nell’anima visionaria, l’ormai antica e provocatoria ostentazione di Caterina Sieverding. Se l’arte dovesse essere intesa come una visionarietà che incalza Eros, invece che venirne posseduta, in quel caso non ce ne sarebbe per nessuno. Troppo è antica la storia di quest’artista: l’ho conosciuta bionda e sfrontata, quando negli anni Settanta calcava le scene dell’eros con aggressiva autoreferenzialità. Con Caterina la visionarietà contemporanea si è fatta teatro: anche attraverso il solo uso della fotografia, dell’autoscatto, della Polaroid. Teatro quotidiano.
Affonda invece nel brivido dolorante dell’“Azionismo” viennese degli anni Sessanta, la tortura chirurgica della Orlan, vero e proprio simbolo di un’umanità “mutante” attraverso il bisturi della chirurgia plastica, filmato con dovizia di particolari: quando la visionarietà diventa un fatto compiuto; quando l’identità si raggiunge attraverso la mutazione del proprio corpo straziato.
Ci sono collezionisti che tremano; e mi riferisco a quel collezionismo tra virgolette, più incline all’investimento che all’amore per l’opera. Quelli, insomma che hanno abbandonato le gallerie per le case d’asta, assolute dominatrici del settore negli ultimi dieci anni. Infatti l’alta finanza ha già iniziato la svolta, sta abbandonando i miti del grande mercato occidentale e rivolge gli investimenti alla Cina, all’India, all’Asia in generale: si acquista a poco, in pochi mesi si gonfia molto e si rivende meglio.
Chi ha investito troppo in agnelli sezionati, animali da giardino, peggio ancora in scheletri ben confezionati, sta vivendo il brivido del listino che cala, della conversione affrettata, della congiuntura sfavorevole. E come sempre rischiano di rimetterci i piccoli, quelli che hanno creduto e che ancora ci credono, quelli che hanno superato bronci famigliari e gli sfottò degli amici incolti.
Ecco cosa succede a chi ha scambiato l’arte per il gioco in borsa; a chi ha scelto per profeta il critico-manager di giornata; a chi ha delegato la gestione del proprio cervello e dei propri sentimenti a qualche pagina mal patinata, alle troppe consulenze da New York e alle idee-scandalo, invece che dedicarsi allo scandalo visionario delle idee, che è il metro unico, eterno ed universale dell’arte e dell’umano pensiero.
L’ange de la métamorphose è l’opera che Jan Fabre ha esposto, su invito dello stesso Museo del Louvre, nelle sale dedicate alle scuole fiamminghe, da Bosch a Rembrandt e Van Eyck. Non si tratta però di un’opera tra le altre, come tempo fa si era visto nel caso di Anish Kapoor e Anselm Kiefer. La visionarietà di Fabre si è invece scatenata in un’installazione invasiva e a dire poco pretenziosa: ha assaltato le sale con sculture di ossa umane e dipinti eseguiti con tracce di sangue; mentre per alcuni lavori non si è davvero risparmiato e si è servito del proprio sperma. Così, almeno, lui lo ha “autocertificato”. Eh sì, c’è anche la visionarietà gratuita.
Insomma Fabre cercava baccano, polemica e dunque massima visibilità, cosa che almeno in parte gli è riuscita, anche se ormai sono sempre in meno quelli che cadono nella trappola dello scandalismo. In ogni caso, ci informa che “i giorni passati camminando avanti e indietro per le sale (durante l’allestimento) e le notti da solo in mezzo a questi quadri mi hanno reso felice come un bambino sull’altalena”. Beato lui. Io no, perché già ci aveva aggiunto i suoi. Perciò sono fuggito appena ho potuto, mi sono tuffato nel grande, eterno viale delle Tuileries come un passero nell’aria dolce di Parigi scossa dal vento. Infine a casa, nel piccolo appartamento da cui vedo mille pinnacoli gotici: dove anche i mostri, e i diavoli con la forca, per noi bambini hanno un animo grande così.