Eccoci giunti ad un’altra tappa del nostro viaggio nel mondo dell’alta moda, volto ad indagare l’intreccio di relazioni, complesse ma affascinanti, che intercorrono tra questo ambito creativo e le arti figurative. Il vicedirettore di “Stile” incontrò Gianfranco Ferré.
Architetto Ferré, lei sostiene che la moda non vada confusa con l’arte. E’ innegabile però – anche partendo da questo punto di vista – che esistano aspetti comuni ai due ambiti. Entrambi, ad esempio, affrontano una lettura del dato reale attraverso una sensibilità personale…
… entrambe puntano alla singolarità, ovvero all’originalità, dei risultati; entrambe “vivono” di attenzione per ciò che avviene nel mondo, per ciò che in esso si compie, si muove, cambia; entrambe non avrebbero modo né ragione di esistere se non calate nella realtà di un preciso contesto storico-sociale; entrambe sono frutto dell’interpretazione individuale e della propensione al nuovo, ma anche di una somma di abilità, esperienze, competenze che si stratificano nel tempo come risultato di apporti plurimi e differenziati, ovvero come espressioni di un sapere che è patrimonio collettivo; entrambe hanno bisogno di slancio, intuizione, immaginazione ed insieme di tecnica, metodo, mestiere… Ritengo che arte e moda non si debbano e non si possano confondere perché, nell’assoluta comunanza di peculiarità, diversi sono gli intenti, le finalità, gli strumenti utilizzati, i percorsi che portano alla creazione. Ma non posso che credere fermamente e profondamente alle infinite affinità elettive che da sempre segnano lo speciale rapporto dell’una con l’altra.
E’ ben noto il suo amore per la pittura e la scultura del Novecento, che si è concretizzato, tra l’altro, in una collezione personale dove sono presenti maestri come Picasso, Léger, Braque, Giacometti, Fontana, Burri… Vuole raccontarci come è nata e come si è sviluppata questa straordinaria raccolta?
All’inizio fu Picasso: due acquerelli, che, più di trent’anni fa, sono stati uno dei miei primissimi acquisti “importanti”. Negli anni si sono poi aggiunti Klimt, Modigliani, Giacometti, Léger, Braque, Fontana, Burri, Pistoletto, Schifano, Del Pezzo, Tadini, Depero, Rotella, Baj. E’ forse improprio parlare di collezione: le opere che possiedo sono volutamente non moltissime e scelte sempre e soltanto per convinzione, per una sorta di loro rispondenza non solo al mio gusto ed ai miei credo estetici, ma anche ai caratteri di un mio “mondo” emozionale e reale, fatto di certezze acquisite e di conquiste realizzate negli anni, di senso profondo delle radici e di attenzione per tutto ciò che è nuovo, singolare, diverso dal consueto. Un mondo fatto di idee, valori, sogni, aspirazioni. Fatto anche di luoghi fisici che sono di vita e di lavoro, in cui le opere che amo “vivono” con me e in sintonia con l’ambiente. Nessuna intenzione museale, nessuna stanza del tesoro dove ammassare capolavori da godere in segreto. I miei quadri sono negli ambienti di casa mia così come negli ambienti in cui lavoro. “Giocano” di rimando con le tante belle cose che sono state dei miei genitori, con i pezzi di arredo che ho disegnato io. Li sento miei e ne vado fiero al punto da volere che possano essere ammirati ed apprezzati tanto dagli amici più cari quanto dalle persone che entrano in contatto con me per ragioni di lavoro. Non è un caso che un’opera a cui sono affezionato in modo speciale – una composizione di un grande amico e di uno straordinario artista, Lucio Del Pezzo – sia collocata in un punto strategico del mio spazio di via Pontaccio sin dal giorno della sua inaugurazione. E che sia visibile a tutti, attraverso le vetrate, persino a chi passa per la strada…
Alcuni autori della sua collezione – da Schifano a Tadini, da Baj a Depero, da Rotella a Del Pezzo – risultano legati da un filo conduttore comune, quello d’un forte dinamismo che si accompagna ad una spiccata tensione innovativa in campo cromatico e formale. E’ corretto affermare che tutto ciò coincide con la cifra estetica e stilistica alla base della sua opera?
Assolutamente sì, credo che la chiave di lettura di tutta la nostra epoca – in tutte le sue espressioni, i modi di vivere, le manifestazioni del pensiero, dell’arte e della cultura – sia una concezione del tempo, dello spazio e del movimento molto diversa rispetto al passato perché fortemente incentrata sulle valenze della velocità, dell’energia, del dinamismo. Valenze essenziali anche nella quotidianità della nostra vita che è fatta di viaggi, spostamenti, comunicazioni che si compiono in tempo reale, ritmi produttivi sempre più accelerati, flusso costante e rapidissimo di notizie, informazioni e dati, tale da annullare i limiti sino ad ora imposti all’agire umano dalla concretezza delle dimensioni spazio-temporali. Questa credo sia realmente una delle “cifre” primarie della nostra epoca che, come tale, non può non permearne anche lo spirito, la cultura, l’arte. E la moda. E nella mia moda, nel mio stile c’è ed è sicuramente forte il senso del movimento, che connota l’oggetto-abito sin dal suo nascere sotto di forma di schizzo: pochi “segni” tracciati sul foglio bianco in velocità – appunto – ma che già esprimono un rapporto immediato, diretto – direi naturale e necessario – con il corpo e la sua fisiologica necessità di muoversi, in sintonia con ciò che lo ricopre, lo protegge, lo abbellisce. Un senso del movimento e della velocità che connota, nondimeno, anche il prodotto-abito che nasce pur in un contesto di esclusività e di originali per una fruizione comunque agile, veloce, libera anche se consapevole e ponderata.
La sua geniale attività di stilista fa leva sovente sull’equilibrato rapporto fra il gioco di squillanti vibrazioni e fantasie di colore da un lato ed il rigore assoluto del bianco dall’altro. Ciò può essere interpretato anche come metafora della ricerca di armonizzazione fra quella progettualità innovativa, tesa al futuro, di cui si diceva, ed il rispetto condiviso per i valori della grande tradizione della moda italiana?
Non ho il minimo dubbio: fare moda significa saper guardare avanti, creare abiti che abbiano un significato nel quadro di riferimento del vivere presente ed ancor più siano come possibili risposte ad esigenze e desideri futuri. E’ una condizione a cui la creatività applicata alla moda non può sottrarsi e che io giudico felice e stimolante perché fa del mio lavoro un’attività costantemente “in progress”. Con la stessa determinazione, rifiuto però l’atteggiamento che vuole la creatività e la moda del presente artificiosamente prive di radici, prive cioè di un legame di continuità con tutte le forme e le manifestazioni di eleganza che si sono susseguite nei secoli, concretizzando nella realtà fisica dell’abito il gusto di uomini e donne, i loro credo estetici, ma anche e soprattutto lo spirito, la natura, l’assetto globale di società e di epoche intere. Negare, o, peggio ancora, ignorare che anche lo stile è frutto di evoluzione e di maturazione costante significa negarne ed ignorarne la sua valenza più importante. Significa negare alla moda l’attinenza profonda che ha con la vita, non meno che il suo valore di esperienza culturale di impatto diretto ed immediato. Forte di questa convinzione, tanto nel mio atteggiamento metodologico quanto nella pratica quotidiana del mio lavoro, sostengo con determinazione un principio ben preciso: il passato dell’eleganza va amato, conosciuto, studiato, analizzato. Non per riproporre acriticamente fogge e modelli che ora non avrebbero più neppure ragione di esistere, ma per acquisire una sorta di consapevolezza delle radici, senza la quale la moda di oggi e di domani difficilmente può avere dei contenuti.
Lei ha dichiarato in un’occasione: “Per me è naturale pensare, come a una fonte privilegiata d’ispirazione, all’arte, e soprattutto all’arte figurativa”. Può farci, in proposito, qualche esempio, che metta in relazione diretta un dipinto od una scultura con un abito da lei ideato?
In verità, il mio interesse per le arti figurative viene prima del mio lavoro. Si può dire che sia un po’ parte delle mie radici, come frutto di un certo tipo di educazione e di consuetudine alla qualità che ho “respirato” in famiglia e che fa dell’arte un ambito di riferimento irrinunciabile, accanto alla musica o alla lettura, ma anche all’eleganza nel vestire, alla cura per la casa o al piacere della buona cucina. Detto questo, è assolutamente vero che nel mio lavoro ho “collezionato” altre grandi esperienze, altre emozioni ispirate ai protagonisti dell’arte di tutti i tempi e di ogni latitudine: la delicata severità dei volti di Utamaro, le cromie energetiche alla Wahrol, le pulsioni avanguardistiche del cubismo e del dadaismo, l’evanescenza di certe figure di Giacometti o di Modigliani, l’espressività immediata della tattoo art etnica… In un rapporto con l’opera di “riferimento” che non è e non può mai essere immediato, poiché, al contrario, si colora di sfumature, apporti personalissimi di interpretazione, ridefinizioni nel segno dell’originalità…
Le sue creazioni risultano influenzate dalla passione per il viaggio, specialmente in Paesi esotici, come l’India, la Cina, il Giappone. Ciò presuppone una profonda ammirazione per l’arte – e, più in generale, per la cultura – dell’Oriente, con il suo bagaglio di doviziosità, di richiami simbolici, di incanti e magie. Quali sono le caratteristiche dell’arte orientale che più frequentemente riecheggiano nella sua produzione? Ed in che misura interagiscono con gli influssi della tradizione occidentale, specie di quella figurativa, di cui si parlava poc’anzi?
Come mi capita spesso di sottolineare, Oriente e Occidente sono i poli estremi di un mio panorama ideale peraltro molto composito, articolato ed assolutamente “in progress” perché sempre estremamente ricettivo e pronto ad incorporare dati e suggestioni che mi giungono da nuove esperienze, viaggi, incontri, letture. Ed altrettanto spesso mi capita di affermare che, con ogni probabilità, senza il mio “incontro” con l’Oriente il mio stile sarebbe stato profondamente diverso. Un incontro che per me ha rappresentato senza alcun dubbio la prima grande esperienza di vita e di stile. Fuori dai canoni e dagli orizzonti conosciuti che mi derivavano dalla mia formazione e dalle mie radici. Quella che io chiamo la grande lezione dell’Oriente, dell’India in particolare, che mi ha conquistato per sempre e che per sempre è entrata a fare parte del mio immaginario, non è solo una fascinazione per la sua storia antichissima e la sua arte raffinata. Spesso era la quotidianità e dunque la vita da me osservata nelle strade delle metropoli orientali (New Delhi, Bombay, Calcutta, ma anche Canton, Shanghai, Macao, Hong Kong) che ho visitato negli anni della mia permanenza in India a calamitare la mia attenzione e a sedimentare nella mia memoria suggestioni, sensazioni, impressioni che ho poi rielaborato e tradotto nei miei abiti, in un dettaglio, in una sfumatura di colore, in una speciale lavorazione. Se dovessi riassumere in un concetto il senso più vero di questa grande lezione non potrei che ricorrere ad una definizione duplice, necessariamente – anche se solo in apparenza – contraddittoria. Quella di semplicità opulenta, di elementarità sfarzosa che connota lo spirito dell’Oriente e dunque i suoi costumi e la sua arte. Penso, per esempio, ai colori – come il rosa, l’arancio, il giallo – che a me parevano regali, sontuosi, elegantissimi e che invece in India erano tanto diffusi perché particolarmente economici e semplici da realizzare con le tinture naturali. E penso naturalmente anche alle fogge, a quelle del sari e del sarong in special modo: semplicità assoluta ed eleganza totale, mille modi di portarli con mille valenze diverse, mille possibilità di drappeggiarli che corrispondono a mille significati, modestia del tessuto, mancanza di ogni ingombro, rapporto immediato con le forme del corpo, adattabilità ad ogni movimento, a quelli imposti dai lavori pesantissimi svolti dalle donne delle caste più umili come a quelli ieratici ed alteri delle maharani. Altro importantissimo elemento di fascino è appunto la ricchezza di valenze simboliche che si ritrova in ogni aspetto della realtà orientale, direi in ogni piega dell’anima dell’Oriente come in ogni piega del sari. Il colore rosso, per esempio, che per noi occidentali è passione, vita, sensualità (e che per me in particolare è “il” colore), nella Cina degli imperatori era invece il colore della regalità, del potere, dell’autorità… Questo straordinario apporto di suggestioni che anima il mio stile e, prima ancora, il mio immaginario, si innesta senza stridore in un orizzonte di certezze, direi in un ordine mentale segnato invece dai riferimenti, altrettanto forti e decisivi, alla tradizione occidentale. Che per me significa innanzitutto pensiero razionale e dunque logica, metodo, progetto, linearità di percorsi, chiarezza di intenti e di procedure. Ma non solo. L’Occidente è anche la certezza delle radici, è familiarità con un patrimonio di esperienze eccezionalmente ricche perché sedimentate nel tempo, articolate, fittamente interconnesse l’una con l’altra, tanto che ogni Europeo, credo, senza particolare difficoltà può sentirsene partecipe in misura maggiore o minore, quasi fossero elementi sostanziali di un comune patrimonio genetico. Da questo patrimonio genetico “sui generis” ho potuto sempre ricavare riferimenti, suggestioni, motivi di ispirazione che rimandano ad esperienze della nostra arte, della cultura o del costume: opulenze barocche e splendori del ‘700, enfasi romantica e decadenze borghesi alla Thomas Mann, chic parisien e solidità mitteleuropee, dandismi anglosassoni e sperimentalismi dadaisti. E nella mia “curiosità globale” non mi è mai sembrato innaturale accostare i fasti del Barocco a quelli della Cina imperiale…
Vuole parlarci – da architetto – delle suggestioni reciproche che intercorrono tra due diverse forme di architettura: quella che ha dato origine a celebri edifici della storia dell’arte e quell'”architettura del corpo” che può essere considerata, in fondo, l’Alta Moda? Le chiedo questo anche pensando ad alcuni eventi di cui lei è stato protagonista: mi riferisco, ad esempio, ai rimandi plastici, formali e compositivi che hanno contraddistinto gli allestimenti delle sue mostre fiorentine alle Cappelle Medicee – nell’ambito della Biennale del 1996 – e, nel 2000, a Palazzo Pitti, con l’apporto congiunto della Galleria del Costume e della Galleria d’Arte Moderna…
Più volte i miei abiti sono stati definiti “architetture tessili”. E più volte mi sono sentito di correggere questa definizione sottolineando come essi siano, almeno nei miei intenti, “architetture tessili per il corpo”. Una specificazione che rende meglio l’idea di che cosa sia l’abito per me: il risultato di un incontro “guidato” dalla mano del creatore tra forma e materia, un intervento ragionato sulle forme conseguenza di un processo di costruzione e dunque di un progetto. Vestire una donna o un uomo significa dunque ragionare in termini di linee, volumi, proporzioni. Esattamente come “vestire” uno spazio. La differenza – unica forse, ma importantissima – risiede nel fatto che per il creatore l’elemento di riferimento primario è il corpo umano, ovvero un’entità in movimento che come tale va considerato sin dal primissimo abbozzo d’idea per un abito, in cui devono convivere costruzione e fisicità, struttura e senso del corpo. Il corpo allo stato puro, appena celato, quasi soltanto “tatuato” dall’abito, il corpo rivelato da tessuti elastici fatti aderire con formidabile duttilità, il corpo enfatizzato da volumi, ampiezze ed opulenze intenzionalmente dotate di una leggerezza che le libera da ogni senso di ingombro e di costrizione. Speciale e specifico è poi per me il discorso relativo alla moda nei luoghi d’arte e nei musei in particolare. Accolgo con entusiasmo ogni iniziativa in questo senso. In un Paese come il nostro, che tanto deve alla moda e che nella moda mette il suo carattere, il suo ingegno e le sue abilità migliori, è spesso difficile testimoniare quanto la moda stessa sia patrimonio storico, artistico e sociale di assoluta importanza. Qualcosa a cui spetta a pieno titolo quella “patente di nobiltà” che consente, o dovrebbe consentire, alle concrete espressioni dell’intelligenza l’accesso e la presenza nei musei, nelle gallerie, nelle istituzioni preposte alla diffusione della cultura, dell’arte, del bello. Anche perché, a tutti gli effetti, il senso primario della moda è quello di potere essere condivisa. Fin da subito, fin da quando l’abito debutta in passerella, viene interpretato nelle immagini, proposto nelle vetrine, indossato per la strada. Se poi l’abito e dunque la moda, con le emozioni che incorpora e sprigiona, giungono in un museo, diventano realmente di tutti, diventano patrimonio collettivo e possibile strumento di crescita comune. E da architetto non posso non considerare primario il rapporto che lega l’abito allo spazio museale che lo accoglie, ovvero i modi e le forme con cui un determinato abito viene proposto in un determinato spazio. Così, mi è sembrato naturale “riempire” la severa perfezione delle volte delle Cappelle Medicee di elementi importanti ma leggeri ed aerei: cinque modelli di crinolina, del tutto fedeli per caratteristiche e in gran parte anche per tecniche di realizzazione alle strutture d’abito originarie, anche se volutamente esasperati nelle dimensioni e sospesi nel vuoto. Non è diversa l’ottica con cui ho “affrontato” il progetto di mostra dei miei abiti a Palazzo Pitti. Esposti in un contesto così solenne ho voluto che le mie creazioni – che sono espressioni del nostro tempo ed appartengono al presente – non subissero immediatamente il destino dell’immobilità in una teca. Al contrario, mi è sembrato indispensabile che essi potessero conservare quella che è una straordinaria potenzialità della moda: la capacità di raccontare la vita attraverso emozioni vive e vibranti. E’ nato così un progetto di mostra da visitare con ognuno dei cinque sensi, in cui le impressioni offerte dagli abiti fossero arricchite dal movimento, da suoni e rumori, da giochi di illusione e segni grafici. Non ho esitato ad utilizzare la tecnologia più avanzata ed accorgimenti ad alto potenziale evocativo per rendere dinamica la presenza degli abiti in un contesto dall’incommensurabile allure storica, offrendo un’idea a tutto campo del mio mondo: i fasti di un Oriente rilucente d’oro e di broccato, i mille volti di un Occidente in cui la sensualità dei colori mediterranei si oppone alle raffinatezze altere della Mitteleuropa, echi di favola che nascono da singolari alchimie di materia, una natura sognata e reinventata ma vibrante di vitalità e di movimento…
Gianfranco Ferrè – Le fonti artistiche dei suoi disegni di moda
Sono quelle che segnano - pur nella diversità di percorsi e d’intenti - lo speciale rapporto tra arte e moda. Lo sostiene Gianfranco Ferré in questa lunga intervista in esclusiva per Stile. “Amo dipinti e sculture segnati da un forte dinamismo. Ma anche i volti di Utamaro, le pulsioni cubiste e Dada, le figure di Giacometti e Modí...”