CONTEMPORANEA
IL SEGRETO DI LUCA
I quadri recenti di Padroni
liberano un’assoluta
spontaneità espressiva
inscritta entro una dialettica
degli umori e degli amori
che è ormai chiara
nella parabola creativa
di questo artista inquieto
di Roberto Gramiccia
Se c’è una cosa che apprezziamo in arte è il coraggio. Il coraggio di fare tutta la vita lo stesso quadro, come fece Morandi. O quello di cambiare radicalmente strada come fece Duchamp. L’importante è essere autentici e andare alla ricerca della qualità.
Ecco una cosa di cui nessuno parla più: la qualità. “Pittura di valori” si diceva una volta, oggi questa espressione è scomparsa e la qualità in pittura è diventata un optional. Semmai a interessare è la grancassa mediatica, la spettacolarizzazione dell’arte, l’artificioso chimismo che produce una notorietà da perseguire a tutti i costi.
Una delle fissazioni più comuni (oltre all’ansia di arrivare subito) che serpeggia fra le fila dei giovani artisti in particolare è quella della riconoscibilità. Come se fosse indispensabile trovare un marchio di fabbrica, una griffe, un’araldica in grado di renderti inconfondibile. Si capisce che questa ossessione è figlia dei tempi della mercatizzazione della vita materiale e immateriale, della creatività, della politica, della religione persino.
Luca Padroni è un giovane artista romano (è nato nel 1973) che ha saputo dribblare come un giocatore brasiliano tutti questi ostacoli. La sua stella polare è stata sin dall’inizio la qualità, parlo dell’intenzione prima ancora degli esiti. Un’intenzione preceduta non a caso dagli studi in scuole prestigiose (l’University College di Londra e l’Art Institute College di Chicago). In questo suo andare alla ricerca della qualità, questo giovane pittore si dimostra all’antica. Perché non cerca scorciatoie. Anzi a volte si complica la vita. Cambiando completamente registro linguistico e, apparentemente, ricominciando da capo.
Oltre dieci anni fa Padroni iniziò con una figurazione palpitante e nevrotica che pescava nelle atmosfere cittadine di una metropoli sui generis. Questa metropoli è Roma, insieme uguale e diversissima dalle altre capitali del mondo. Caotica e dispersiva, ma anche irripetibile, unica, incomparabile. Le inquadrature pittoriche quasi cinematografiche di Luca che, ancora giovanissimo, girava la città schizzando sul suo taccuino scorci di paesaggi, come facevano i vecchi viaggiatori dell’arte, rivelano insieme il suo talento e il suo essere preso totalmente da Roma (Via Giolitti del 1999, Piazza dei Cinquecento del 2000, Bin Bon ndah! Di ni tai chi! del 2001).
Ad uscirne fuori sono appunti di viaggio metropolitani freschi e autentici che alludono, oltre che alla Scuola di Londra (Bacon, Kitaj) o all’Espressionismo astratto americano (De Kooning) come qualcuno ha scritto, alle atmosfere romane del tardo Ziveri (quello dei tram degli anni Cinquanta) e ancora di più alle acrobazie prospettiche e alla spontaneità visionaria di Ennio Calabria o al virtuosismo grafico di Vespignani. Rimandi a quella Nuova Figurazione troppo presto archiviata ed erroneamente schiacciata su realismi politicamente schierati.
Quei disegni e quella pittura frammentata e frammentaria, perché di una realtà frammentata e frammentaria si occupavano, ci piacevano per la loro felice istintività e per il bello di un’ingenuità giovanile che profumava di bucato e che lasciava sperare in roboanti carriere. Quando parlo di ingenuità mi riferisco non alla balbuzie del ragazzino inesperto ma, piuttosto, allo sguardo ancora avido di impressioni che restituisce – in una specie di cortocircuito – sollecitazioni alla mano e al polso del pittore che ha studiato a lungo per diventare tale.
C’è un artista, romano anche lui, Franco Mulas, piccolo grande campione della Nuova Figurazione il quale è passato da una figurazione critica post-pop ad una pittura astratta che dalla dispersione e dal frammento trae alimento per redigere un rapporto puntuale e angosciante sull’esplosione del contemporaneo. La stessa che ha prodotto le schegge impazzite della vita di oggi. Via, lontana da noi ogni prospettiva unitaria, ogni ipotesi di senso. Via ogni pietas, ogni compassione, ogni rivoluzione. Il caos, solo il caos, senza più cosmos.
Questa temperie intellettuale deve aver vissuto Luca Padroni nei suoi primi cinque anni di pittura accanita e mordace. Fino a cercare un momento di ristoro in un approdo della ragione e dell’intelligenza. Un po’ come quando un amore ti divora e ti lacera e tu, vinto dopo l’abbandono, hai bisogno solo di pace. Di solitudine e di pace. Per ritrovare la ragione.
E la ragione Padroni ha ritrovato nella geometria, nella matematica del suo nuovo ciclo. Quello dei treni e delle stazioni. Un approdo alla calma del rigore delle linee e dell’accordo tonale dei colori. Della velocità postfuturista che sembra celebrare l’assoluto della meccanica, della fisica, della matematica, come in Prospettiva Miró del 2005. Ma non crediate nemmeno per un attimo che si sia trattato di un’abdicazione del cuore. E’ nota infatti la relazione fra matematica, passione e addirittura follia. Fra poesia, musica e matematica. Basta leggere l’unica biografia esistente su Renato Caccioppoli, grande matematico, il quale sosteneva che non si può essere matematici veri senza essere poeti, per averne contezza.
Per alcuni anni il ristoro di una logica espressiva non più anarcoide ma trincerata entro i canoni di una grammatica e di una sintassi che tutto sussumeva entro il rigore delle linee rette e dei volumi portò sollievo alle inquietudini di Luca Padroni. Fu come una doccia fresca in piena estate. E gli esiti furono all’altezza, adombrando il preannunciarsi di una maturità ormai prossima se non già sopravvenuta.
Ma gli artisti, si sa, se sono autentici, sono imprevedibili e un po’ pazzi, se no farebbero i contabili o i commercianti. Padroni non sfugge alla regola. Ed è per questo che l’ultimo ciclo del giovane pittore romano ha abbandonato ogni geometria per riconsegnarsi al gorgo delle sue interne e incontrollate convulsioni emotive.
I quadri recenti nel loro insieme liberano un’assoluta spontaneità espressiva apparentemente contraddittoria rispetto al rigore delle linee del ciclo precedente e, invece, tutta inscritta entro una dialettica degli umori e degli amori che è ormai chiara nella parabola creativa di questo artista inquieto.
Del resto non vi è chi non veda come dall’incontro-scontro di opposte pulsioni e solo da esso possa nascere quella tensione al “nuovo” e al “migliore” che dovrebbe rappresentare l’interno fuoco di qualsiasi impresa. E’ cosi che i nuovi crateri di Luca Padroni rovesciano su di noi un’eruzione di sentimenti che affiorano dal profondo. Grandi fiori dell’anima o paesaggi innevati. In ogni caso e in ogni quadro c’è un centro germinale e una periferia. Un dentro e un fuori. Un inizio e una fine che coincidono. Una corrispondenza degli opposti celebrata dall’esuberanza di un gesto pittorico semiautomatico che ubbidisce all’esercizio della pratica e della scuola interagendo con le dinamiche più profonde, incontrollate e insondabili.
Psicanalisi e pittura configurano una polarità che il Surrealismo ha solo reso più esplicita e, per così dire, scolastica. Ma tutta la buona e sincera pittura ha a che vedere con l’inconscio. Nel caso dell’ultima produzione di Padroni questa relazione è più marcata, ma ci sembra che l’intero suo virtuoso percorso sia pervaso da un senso del profondo e dell’autenticità che allontana da sé ogni inutile e superficiale autocompiacimento. Di questi tempi, davvero, non è poco