De Chirico, metafisica forever

Coerenza e rigore dell’ultimo de Chirico, che nei quadri dipinti poco prima della morte ribadisce la fedeltà alle proprie scelte in un contesto rinnovato di straordinaria originalità. Nostra intervista a Vittorio Sgarbi


di Enrico Giustacchini

Fino al 9 gennaio 2003, la Pinacoteca provinciale di Potenza ospita la mostra “Giorgio de Chirico. Opere scelte 1919-1975”. “Stile” intervista Vittorio Sgarbi, curatore dell’evento.

imagesLa mostra di Potenza – promossa dall’Amministrazione provinciale, con la collaborazione della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico – presenta, a venticinque anni dalla morte del maestro, lavori realizzati in oltre mezzo secolo di attività. Possiamo dire che l’obiettivo della rassegna – o almeno, uno degli obiettivi principali – è quello di ridare all’artista quel che gli spetta, ovvero riconoscerne la grandezza in tutte le sue stagioni?
Senza dubbio. La mostra propone opere – una settantina, tra oli su tela, sculture e disegni – scelte tra le più significative dei diversi periodi della produzione di Giorgio de Chirico. A partire dai primi lavori, ancora influenzati dalla cultura tedesca – ed in particolare, da un punto di vista pittorico, da Arnold Böcklin e Max Klinger -, fino al “periodo aureo” della Metafisica, per giungere via via alle creazioni estreme.
A proposito delle quali, che tipo di considerazioni possono essere fatte?
Potremmo dire che Giorgio de Chirico, come parte arriva. Dalla Metafisica alla Metafisica, il cerchio si chiude. Ma attenzione: se qualcuno ha creduto, o crede, ad un pittore che negli ultimi anni, ormai stanco e a corto di idee, altro non fa che riprodurre se stesso, si è sbagliato, o sbaglia, di grosso. De Chirico vecchio si esprime con straordinaria originalità. La sua è una Metafisica “reinventata”. Ai temi classici, tradizionali affianca nuovi spunti. L’evoluzione più matura conduce ad un linguaggio fortemente concettuale, ad una “pittura di idee”. Eppure in un determinato momento si era arrivati ad una sorta di “rimozione” di colui che possiamo considerare senza dubbio il maggiore artista italiano del Novecento. Certo, si riconosceva a lui il ruolo storico di protagonista della Metafisica; ma – anche dopo la condanna dei surrealisti, che lo avevano definito “un trombone” e lo avevano, in pratica, rinnegato – egli era considerato come incarnazione di un passato che andava escluso; e si era giunti di fatto ad inventarsi “due” de Chirico, quello “metafisico” e quello “post-metafisico”, estranei fra loro. Il pittore veniva così “imbalsamato”, senza accorgersi che l’ultimo de Chirico – quello battezzato , con intenzioni magari anche commerciali, “neo-metafisico” – aveva escogitato metodi modernissimi per riflettere e far riflettere sull’arte: dalla performance, al reimpiego dei vecchi simboli grafici della Metafisica, in un’esibizione iconica di uno stile diventato ormai storia.

Variano, di conseguenza – nell’ultimo periodo – anche i soggetti…
Sì, e la mostra ci fornisce diversi esempi significativi proprio di soggetti inediti dei quadri degli ultimi anni. A cominciare da quell’eroe sulla barchetta a remi che naviga nelle strette di un mare tutto racchiuso in una stanza (“Il ritorno di Ulisse). E poi, i “Bagni misteriosi”, cabine che si affacciano su piscine in cui l’acqua è sostituita dai mattoni a spiga; il “racconto” dei biscotti ferraresi (“Interno metafisico con biscotti”); l’inserto della mano del “David” di Michelangelo (“Interno metafisico con mano del David”) o di un paesaggio di D’Azeglio; lo sky-line di New York che dialoga con teste di mercurio… De Chirico ricomincia senza alcuna incertezza dal punto in cui si era fermato. Rimette in discussione il proprio repertorio, ma senza più ironia o rifacimento di se stesso: la sua è ancora “Metafisica”, e riesce a produrre, a distanza di mezzo secolo, eccezionali, poetici capolavori. Ecco, proprio in tale contesto possiamo individuare il taglio nuovo della mostra di Potenza, che si propone, come già è stato sottolineato, di “rivalutare” un periodo certo meno noto e generalmente meno apprezzato della produzione del maestro.
E sappiamo che l’artista era non poco irritato da tale situazione. Oltretutto, queste opere erano – e sono – meno apprezzate anche dal punto di vista commerciale.
Certo, si coltivò l’illusione di ripetere in questo ambito lo stesso successo, ma sul mercato tali opere valgono indubbiamente meno.
Torniamo, per così dire, alle origini. O almeno, alle prime stagioni creative dell’artista. Perché de Chirico rifiutò il Cubismo, e certa avanguardia?
Il suo fu – più in generale – il rifiuto del Grande inganno, e la riaffermazione dei valori della pittura, unico genere che ha perduto così clamorosamente la propria identità. Se tu vai – poniamo – alla Mostra del Cinema di Venezia, vedi dei film, non buchi nello schermo. Poi vai ad una mostra d’arte, e vedi scoregge in aria, o pezzi di marmo rotto. De Chirico si chiede: perché solo alla pittura deve toccare tutto questo?
Il manichino. Un’icona caratterizzante, identificativa dell’opera dechirichiana, almeno a livello popolare. L’idea venne all’artista dall’“Uomo senza volto”, personaggio del dramma “Chants de la mi mort” del fratello, Alberto Savinio. Secondo lei, ad affascinare de Chirico fu esclusivamente l’opportunità di fare di questo soggetto l’emblema dell’uomo-automa, o giocò anche il riconoscimento della vasta gamma di risorse plastiche e compositive insite nel soggetto stesso?
Credo che nelle opere dove appare il Manichino – ce n’è molte, in mostra – prevalga l’idea dell’uomo senz’anima e senza carattere. Un’idea, appunto: e il rifiuto – come avvenne, seppure in ben altra forma, con Morandi – di rappresentare l’uomo. Od ancora, l’espressione di una difficoltà, dell’inadeguatezza umana rispetto alla storia. Ricordiamo la celebre definizione di Roberto Longhi, che chiamò il manichino “dio ortopedico”, intendendolo, con una connotazione miopemente negativa, come immagine di una divinità inferiore “inaudita” e senza autenticità, ad “eternare l’uomo nella lugubre fissazione del manichino d’accademia o di sartoria”.
Per concludere: l’influsso della Metafisica sul Novecento fu davvero così decisivo?
Indubbiamente sì. Per il Surrealismo, ad esempio – nonostante la successiva, e già ricordata, abiura – fu capitale. Ma più in generale, la rivoluzione di De Chirico, del “Pictor optimus” determinò, con profonda coerenza e sicurezza, l’autonomia di un percorso di “fedeltà alla Pittura”. Una Pittura che dopo secoli tornava ad essere un evento intellettuale, capace di descrivere i meccanismi della mente. Una Pittura attenta alla classicità, ma sempre pienamente libera ed antiaccademica nella sua elaborazione.


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