Paesaggi di passaggio

Gli artisti contemporanei trasfigurano vedute credibili ma spaesanti, oscillando tra il reale e l’artificio virtuale, filtrati dal distacco critico dai luoghi di appartenenza come fossero etnologi di una naturalità perduta

di Jacqueline Ceresoli

[I]l paesaggio è un genere pittorico secentesco tornato alla ribalta nel nuovo millennio. Sembra che gli scenari virtuali, per quanto affascinanti, siano in ribasso nel mercato dell’arte. Il paesaggio è un soggetto che indaga la realtà e il rapporto con le cose, lo spazio e il tempo. Nella storia della pittura, la natura all’inizio è idealizzata: il suo aspetto realistico è introdotto in Italia dai tedeschi e dai fiamminghi, si ricordano Bruegel e Brill, che soggiornò a Roma e incantò Federigo Borromeo con paesaggi luminosi e d’atmosfera. Nel Seicento e Settecento prevale la rappresentazione del paesaggio “classico” strutturato in maniera geometrica e razionale; in particolare sono molto richieste le immersioni arcadiche nel verde lussureggiante al modo di Poussin, Lorrain e Dughet. All’opposto di questa interpretazione cartesiana della natura, vi sono i paesaggisti visionari come Salvator Rosa, Ricci e Magnasco, che aggiungono note fantastiche agli aspetti naturalistici, sviluppando un genere particolare ed autonomo.

Nell’Ottocento la natura diventa linguaggio romantico, con il passaggio dalla veduta al paesaggio pittoresco e all’accentuazione dei valori soggettivi, che la trasformano in uno specchio degli stati d’animo. Friedrich è stato un paesaggista protoromantico; poi Turner e Corot superano il vedutismo di maniera, aprendo la strada alla dissoluzione formale con paesaggi dipinti con effetti luminosi di colori e trasparenze straordinari, di una modernità sconvolgente. Intanto è maturata l’esigenza di dipingere dal vero, e i pittori incominciano ad uscire dagli atelier e dalle accademie per studiare le mutazioni di luce sulla natura.

Dal 1830 la Scuola di Barbizon diventa la meta di artisti innovatori, che lavorano a contatto della natura. Dalla seconda metà dell’Ottocento si affermano i principi del realismo con Courbet, e tale atteggiamento trasforma gli aspetti della realtà visibile in presupposti formali riproducibili. Da questo momento il paesaggio si conferma come metafora del divenire biologico, della vita. A Napoli, la Scuola di Posillipo sviluppa una pittura vibrante, antiaccademica, con interpretazioni soggettive e liriche del paesaggio locale: i protagonisti sono Giacinto Gigante e i fratelli Palizzi. In Lombardia, Giovanni Carnovali detto il Piccio stupisce i coetanei con scenari del Po e dell’Adda, dipinti con pennellate quasi tremolanti che sembrano immobilizzare l’aria; seguiranno la scia anticlassica gli Scapigliati a Milano. In Piemonte la Scuola di Rivara, sull’esempio di quanto avviene in Francia, pone al centro dei suoi interessi la campagna, nello sforzo di rinnovare la pittura di paesaggio; tra gli altri, Fontanesi è l’artista che aggiunge una nota malinconica alle ricerche luministiche e alle trasparenze vellutate che lo contraddistinguono. Gli impressionisti trasformano il paesaggio in una sensazione di luce dissolta in un pulviscolo luminoso, tenuto insieme da punti di colore puro; i soggetti sono le rive della Senna, le vedute del Midì irradiato dalla luce del Mediterraneo, le foreste, le ninfee, tutti presupposti per cogliere l’atmosfera, la luce dell’alba o del tardo pomeriggio, del tramonto, quando il sole affaticato dal giorno si ripara dietro l’orizzonte delle acque, degli alberi, delle colline.

Sisley, diversamente da Monet non riesce a distaccarsi del tutto dal “sentimento della natura” e pone al centro dei suoi interessi non la sensazione visiva, ma la sensibilità. Signac elabora una tecnica neoimpressionista e si specializza in paesaggi acquatici, poi si trasferisce a Saint-Tropez e i suoi mari naufragano in punti non d’azzurro, ma di luce abbacinante. In Italia, Segantini dipinge le luci della natura con una tecnica divisionista. Per Cézanne il pensiero è lo strumento della conoscenza della realtà, anche se egli non rinuncia alla sensazione visiva, gettando un ponte tra l’immediatezza impressionista e la struttura cartesiana del paesaggio; e a tale proposito scrive che “bisogna trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, il tutto messo in prospettiva”, anticipando le ricerche cubiste. Nella “Montagna di Sainte-Victoire” Cézanne dimostra che è lo sguardo a determinare e strutturare il pensiero della natura. Con Van Gogh, il calvario dell’artista che si sente escluso dalla società condurrà sino alle radici dell’Espressionismo. Antonin Artaud, a proposito dello sguardo tragico sulla realtà del visionario folle rinchiuso ad Arles, scrive: “Non è delirio passeggiare di notte con dodici candele piantate su un cappello per dipingere un paesaggio dal vero”. Infatti non è delirio l’accostamento stridente dei colori agli stati d’angoscia dell’artista, ma una proposta di arte-azione; un atto estremo di passione per la vita che si sublima nella morte. Nelle opere di Vincent, la notte diventa il tema dell’inatteso: è il presagio, l’incubo della morte, e il paesaggio configura gli aspetti prismatici delle emozioni, delle ansie di vita. La sua materia pittorica striata e vibrante diventa autoreferenziale, esasperata, e il suo paesaggio non copia la natura, ma “è” Van Gogh. Dal 1910 Kandinskij, tralasciato il suo passato figurativo, volta pagina. L’artista, d’un tratto, abbandona il “mestiere” e torna ai ghirigori infantili, alle macchie di colore, ai punti, alle linee e ai contorni per definire superfici dell’immaginario. La sua pittura è suggerita da impulsi profondi (intanto Freud teorizzava l’inconscio e le azioni guidate dalle pulsioni), che l’artista traduce in visualizzazioni di sensazioni tattili, evocando non immagini ma segni, che possono sommarsi o sottrarsi, estendersi o stringersi in tracce di colore: tutto dipende dagli impulsi e dall’energia che li determina. La casualità, la gestualità, il primitivismo, l’apriorismo della sensazione sulla razionalizzazione, anticipano la pittura d’azione americana di Pollock. Dal 1945 in poi è davvero arduo definire il paesaggio in arte, che è sempre più soggettivo, all’insegna dell’innovazione e della provocazione. Con la Land art è marchiato dalle opere, i fotografi lo decontestualizzano; è lo spazio dell’astrazione.

Per gli autori contemporanei, può essere impulsivo, sfuggente, iperrealista, impossibile da sistematizzare. Nell’arte del presente il paesaggio è un linguaggio della metamorfosi: è una foresta segnica di luoghi ibridi, artificiali, sempre iperconcettuali; anche quelli apparentemente naturali evocano in fondo paesaggi possibili. La domanda è: quale paesaggio diventa immagine che coglie le mutazioni della natura, dell’ambiente, del territorio in un’epoca in cui l’uomo ha perduto i contatti diretti con il suo habitat naturale preferendo la sua simulazione? La risposta è negli sguardi di artisti che trasfigurano paesaggi credibili ma spaesanti, oscillando tra il mondo organico e quello virtuale, tra il naturale e l’artificiale, filtrati dal distacco critico dai luoghi di appartenenza come etnologi di una naturalità perduta.

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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa