di Jacqueline Ceresoli
[N]ew York, Parigi, Berlino, Francoforte, Londra, Glasgow, Liverpool, Los Angeles, Tokyo, Sidney, Bangkok, San Paolo: quale veduta urbana sognano gli artisti, dopo che la tecnologia ha smaterializzato il concetto di territorio? Quale città progetteranno gli architetti del XXI secolo dopo il rogo che ha inghiottito in poche e drammatiche ore le torri americane simbolo del genio umano e di una tecnologia apparentemente invulnerabile? Sono passate diverse settimane dall’attacco terroristico alle Torri gemelle del World Trade Center, ma non si dimenticano le immagini terrificanti, trasmesse da un capo all’altro del mondo, che hanno definitivamente frammentato l’immagine della città-mito. Qualsiasi effetto speciale si annulla di fronte alla brutalità, paradossalmente inverosimile, della cronaca contemporanea, assurta a storia attraverso immagini che superano alla lunga la fiction o la realtà virtuale cinematografica e dei videogame. La città è linguaggio in cui i significati architettonici corrispondono ai significati-funzione, e nel XX secolo è diventata l’emblema degli ideali moderni, quintessenza del postcapitalismo avanzato (in particolare Parigi e New York). La città postmoderna è in continua espansione, sfugge a qualsiasi interpretazione totalizzante, e i modelli di riferimento sono ampiamente superati, trasformandosi in segno autoreferenziale. In ogni caso la città nuova, pur offrendo un sistema di segni anarchici e caotici, è una vetrina che galvanizza l’immaginario collettivo proprio per la sua relatività, è lo spazio del progresso, dell’industria, delle relazioni, degli scambi, delle contraddizioni. La città postmoderna rispecchia un mondo che ha trasformato la realtà in immagini frammentate, anche se resta il cuore dell’evoluzione tecnologica e finanziaria; ed è sempre una complessa metafora, nonché oggetto di riflessione. Esiste una letteratura urbana specifica, da Baudelaire a Balzac, Dickens, Joyce, Calvino, Borges, Bellow; e il suo immaginario è un tema ricorrente nella cultura contemporanea. La volontà di immaginare la città corrisponde al desiderio di viverla, di conoscerla prima visivamente e poi realmente: ma chi sa qual è l’identità della città postmoderna? Lo sguardo sulle metropoli viste come laboratori d’invenzione e simulazioni della realtà, come collage di culture e segmentazioni, dopo il crollo delle due torri mette a fuoco il bisogno di riqualificare lo spazio antropologico della città stessa, vissuto non solo come luogo di attraversamenti. Nel futuro si attendono altri panorami, landscape urbani dall’inquietante bellezza per superare la crisi che non è solo della città, ma dell’occhio che non la sa più immaginare. Le visioni sulle metropoli “ideali”, nonostante la tragedia americana dagli effetti devastanti, dovranno continuare a salire nell’obiettivo mentale degli artisti, che sapranno cogliere la loro essenza, l’anima, gli scorci, le luci e le ombre, evidenziando il fascino “perverso” di un paesaggio urbano che si modifica costantemente. Nella nuova città c’è di tutto: il ritorno al passato, la progettazione del futuro e l’utopia di una immagine inedita della città stessa, attraversata dal battito dell’energia pulsante, e mappata da una miriade di cavi che alimentano lo spettacolo della città-evento come epifania del progresso e performance della nuova società mediale. L’icona-città nel tempo ha accresciuto il suo valore simbolico: dopo l’11 settembre, il paesaggio urbano attraverso i media ha stereotipato anche le catastrofi, tant’è che l’America-sogno si è trasformata in una possibile iconografia dell’incubo. Per costruire una nuova immagine urbana nel futuro “iper-reale” dovremo ricostruire la raffigurabilità della città totalizzante nella sua molteplicità segnica, ripensare una città-mito dalla natura mutevole, vitale e dinamica in perenne trasformazione, dove convivono in armonia le differenze per avvalorare il suo aspetto onirico. Per una ridefinizione della città-location delle illusioni, o simulacro di quella reale, immagineremo panoramiche metropolitane extraterritoriali, virtuali e analogiche con l’obiettivo di ri-presentarla costantemente come una possibile epistemologia della futuribilità. Il nostro immaginario produrrà visioni di città in rete, e gli artisti riformuleranno lo scenario urbano della posterità. In un clima di totale disorientamento percettivo, essi sublimeranno l’icona della città apocalittica, trasformandola in un luogo di svelamento, raffigurabile estendendo i confini della percezione oltre la visione reale. Saranno loro a manipolare “i fatti”, ad esorcizzare la visione della città come luogo dei conflitti, ripulendola dalle scorie della cronaca, rimuovendo il visto e il vissuto, il soggetto e l’accaduto, il sognato e il dato oggettivo attraverso immagini urbane in bilico tra vero e finto che raggeleranno e mistificheranno il ricordo di ciò che è stato. Assistere in diretta alla disintegrazione delle torri gemelle ha obbligato lo spettatore a prendere coscienza del “fascino” della visione; l’attrazione estetica dell’immagine-città, unita alla consapevolezza della tragicità dei fatti ha messo a nudo l’ambiguo conflitto tra la ragione e l’attrazione dello sguardo perduto nel “sublime” della catastrofe reale. L’evento ha scardinato le categorie cognitive in cui siamo soliti percepire il tempo e lo spazio. Di fronte alle vedute urbane degli artisti, gli spettatori sono consapevoli che non si può mai sapere fino in fondo qual è e dov’è questa città, se è reale o virtuale, se è stata ritratta prima o dopo la tragedia americana, perché il problema sta sempre nella categoria dello spazio-tempo che si annida tra chi guarda e ciò che è guardato. Il “New Yorker” del 24 settembre mette in prima pagina il buio dopo il disastro; è l’immagine più emblematica di come siamo arrivati al “punto zero” dell’icona-città e di come la percepiamo. Lo skyline di New York che ieri evocava l’onnipotenza della tecnologia, il fascino dell’imprevedibilità, oggi è vessillo di vulnerabilità, ribaltando il senso della sua visione da positivo a negativo. La domanda è: come rigenerare l’identità antropologica e simbolica della veduta urbana? La risposta, anzi le risposte sono tante quante gli artisti che affrontano il soggetto del paesaggio urbano, come landscape di estetica, di senso e di citazioni simboliche. Le visioni si formulano mescolando diverse fonti, reali e immaginarie; dobbiamo tornare a fantasticare sul sogno della città attraverso l’arte che ridisegna spazi, configurando cosmogonie estetiche tracciate da una visibilità artificiale. Nell’opera, nel suo essere azione visiva, la città acquisisce immediatezza segnica, recuperando il valore di ciò che sta dietro alle cose. Attraverso l’arte cerchiamo di contenere le paure ancestrali, il terrore della ricomparsa di città fortificate, minate, turrite e isolate o dissolte dietro al fumo di bombe batteriologiche, che liberano l’istinto e la violenza, la furia fratricida mai sopita nell’uomo. La speranza è che, dopo New York, la distruzione dell’immagine della città si possa rigenerare dalle sue stesse ceneri; ed agli artisti spetterà il compito di riqualificare la simulazione dell’iconografia metropolitana. Siamo immunizzati dall’attrazione del brutto, del violento, del degrado e della volgarità, elargiti dalle tecnologie medianiche; e tale irreversibile perdita di senso e assuefazione al disgusto ha messo in crisi il concetto-città, che coincide con il naufragio della speranza e delle illusioni. Il fascino della città sta tra l’essere e l’immagine, tra la realtà e la possibilità che la sua raffigurazione evoca. Dopo New York, il desiderio di città-mito è forte, anche se l’oggetto del desiderio è oscuro, e lo rimarrà, perché deve restare in continua evoluzione. Scrive Baudelaire: “La forme di une ville change plus vite che le coer d’un mortal!”, e così dev’essere. La carrellata di vedute urbane presentate in queste pagine frammenta la visione dei sogni sulla città-mito: c’è di tutto, per riscoprire le qualità di una città che adesso come mai prima deve riappropriarsi dei suoi riferimenti simbolici. Questa azione “iconizzante” si realizza nell’opera d’arte, che modella città non razionali, non cartesiane, né organiche o naturali, ma riconsegna allo sguardo una dimensione costellata di desideri, evocante miti e ricordi, per l’epifania immaginaria di un mondo che rifletta i nostri sogni. Forse è solo un illusione, ma aiuta a vivere, adesso e sempre. Il “New York Times Magazine” del 23 settembre ha pubblicato, in copertina, due fasci di luce al posto delle torri distrutte. E’ un manifesto della speranza.