di Giovanna Galli
[U]n evento atteso da tempo. Ha riaperto al pubblico la Cappella degli Scrovegni di Padova, prezioso scrigno di uno dei massimi capolavori della storia dell’arte. Novecento metri quadrati di superficie dipinta, riportati all’originario splendore, ospitano le scene, i colori, i personaggi e le invenzioni di un pittore che nel XIV secolo è portavoce di una sensibilità incredibilmente moderna. La perfetta restituzione di ogni sequenza dell’affresco, lo svela inserito in una narrazione dal ritmo quasi teatrale, costruita con un naturalismo frutto di un studio attento, meticoloso, quasi maniacale, della realtà. Lo straordinario intervento di recupero, avvenuto in soli otto mesi grazie all’impegno di cinquanta restauratori diciotto imprese, ha riportato alla luce una serie di particolari che illustrano in maniera indiscutibile la grandezza di Giotto, non legata soltanto al suo genio estetico, ma anche ai molteplici interessi verso quelle discipline “accessorie”, come la fisica e l’ottica, la filosofia e la teologia, forse una fisiognomica ante-litteram, grazie alle quali egli non lascia al caso nessun elemento di un lavoro la cui portata pittorica, simbolica e contenutistica assume un eccezionale rilievo. La conclusione del restauro consente e consentirà, com’è ovvio, a molti studiosi di riconsiderare le proprie teorie in base ai nuovi elementi emersi.
Per esempio, secondo Bruno Zanardi acquistano ora nuova luce alcune delle più controverse questioni giottesche, ad esempio quella dell’attribuzione al maestro fiorentino delle storie di San Francesco nella Basilica superiore di Assisi (realizzate circa un decennio prima), che apparirebbero veramente molto distanti, per tecnica di esecuzione e stile, dal ciclo padovano. Da notare, invece, secondo lo studioso, la conferma del rapporto diretto che lega le scene della cappella a quelle degli affreschi della Basilica inferiore di Assisi – questi di attribuzione certa a Giotto -, rapporto che si manifesta in più occasioni con un’identità quasi fotografica in molte parti dei due cicli. Sempre secondo Zanardi, poi, viene riproposto il problema di come vada intesa l’autografia in opere che coinvolgevano più maestri, ognuno titolare di una propria “specializzazione”. Fondamentale è naturalmente l’individuazione della “mente” del disegno generale del progetto pittorico, di colui – in questo caso Giotto – che rende possibile il raggiungimento di una “qualità standard” di pittura; ma anche la possibilità di riconoscere in quali momenti si abbia di fronte la “vera mano di Giotto”. Zanardi suggerisce un esempio, scegliendolo fra molti altri: i quattro apostoli alla destra di Cristo nella mandorla del “Giudizio Universale” appaiono evidentemente dipinti da due diversi artisti: uno ha eseguito la coppia al centro, il secondo quelli laterali. Chi, fra i due, è Giotto? Un giorno, forse, qualcuno saprà sciogliere i nodi di questa e delle altre annose questioni che circondano l’opera del genio fiorentino; oggi, certamente, tutti noi possiamo godere lo splendore del suo capolavoro restituito.