Nevi eterne, all’orizzonte, e un fiume sinuoso che, da quei luoghi di un gelido azzurro, fluisce alle spalle del Bambino. Una pura fonte sbocca sonoramente, qui, in primo piano.
Sulla proda imbevuta d’acqua prosperano i fiori. Un cardellino poggia lievemente su un albero, osservando un grappolo d’uva. Gesù guarda lontano. Maria lo abbraccia dolcemente, mentre, con la mano destra, indica il Libro.
Certo non siamo di fronte a un rompicapo di simbologia, ma è pur evidente che la Madonna del grappolo d’uva di Bernardino Luini (1480/85? – 1532?) – o comunque di un pittore a lui molto vicino – è un’opera che presenta un intreccio di contenuti allegorici. L’indizio principale dell’azione di un sottotesto è costituito dall’evidenza di elementi che, per quanto descritti con grande precisione naturalistica – secondo il doppio registro leonardesco di soavità degli umani tratti e della minuziosa attenzione alle fisiche verità del mondo – si sottraggono a una logica di pura descrizione della realtà. L’uva, la neve, la viola e la nudità del Bambino sono stagionalmente inconciliabili. La valenza dell’apparato simbolico, nell’ambito delle finalità del dipinto, è pertanto superiore alla necessità realistica di configurare un’unità di tempo e di luogo. Anzi: l’incongruenza invita allo scavo e alla lettura approfondita del quadro. Il dipinto contiene indicazioni legate ai tre segmenti temporali della vita di Cristo, estesi dall’autore a una “quarta dimensione”: quella dell’eternità, delineata dalla solenne, abbacinante presenza di una montagna innevata, sullo sfondo, e dalla perennità dell’alloro, che appare, in un ampio cespuglio, dietro a Maria.
Il libro indica
la voce dei profeti
Alla destra della Madre notiamo un libro che è stato squadernato, più o meno, a metà della legatura. La Madonna poggia la mano su quei fogli. Il gesto è eloquente. Evidentemente il volume è la Bibbia – non potrebbe essere altro – che è stata aperta in corrispondenza di un capitolo dell’Antico testamento. Ecco: il libro costituisce la lastra del passato. L’indice della Madonna ricorda al fedele che la venuta di Cristo è stata a lungo annunciata dai profeti.
Il significato
della viola
Maria e il bambino occupano il centro della lastra del presente, anche se altri simboli dischiudono l’opera al futuro di quel piccolo uomo: l’esile viola – retta dal Figlio tra indice e pollice – è un attributo mariano e cristologico, che allude tanto alla pura modestia della prima quanto all’umiltà del secondo, passato, attraverso l’Incarnazione, dalla natura divina alla condizione umana.
Un’accettazione del destino di sangue e morte che comporta, da parte del Messia, una preventiva e profonda cognizione del dolore. Il colore del piccolo fiore rinvia infatti al viola, tinta quaresimale per eccellenza. Ma i simboli declinati al futuro non si esauriscono nel fiore primaverile.
Gesù osserva
il proprio futuro
Gesù guarda lontano, prefigurando il proprio percorso terreno. Egli sa ciò che avverrà. La mano sinistra scherma gli umanissimi occhi dalla violenza della luce, consentendogli di osservare un punto molto distante – esterno rispetto alla superficie del quadro – da quel luogo di filiale delizia. Soffermiamoci sulla piccola figura, resa con la dolcezza sfumata che caratterizza i ritratti di scuola leonardesca. Per quanto la premonizione – o meglio: la chiaroveggenza – si dischiuda sull’evento drammatico della crocifissione, lo sguardo del Bambino non riverbera l’orrore del Golgota, che egli comunque riesce a configurare, quanto la dolce serenità che discende dall’accettazione dei disegni del Padre.
Il cardellino
prefigura la Passione
Ciò che avverrà è reso evidente, al lettore dell’opera, attraverso due elementi simbolici strettamente interrelati, entrambi appartenenti all’universo simbolico della Passione: il cardellino che poggia sul ramo di un albero – il cui legno allude forse alla Croce stessa – e il grappolo d’uva.
Il cardellino è una presenza reiterata nei dipinti dedicati a Gesù bambino, al punto da rappresentare un’autentica specializzazione semantica finalizzata a disperdere, nella cornice edenica del racconto dell’infanzia di Cristo, i semi del dramma venturo.
Ma la stretta connessione tra la macchia rossa
che chiazza il capo del volatile e il sangue di Gesù, è soltanto un aspetto della metafora pittorica veicolata dal volatile. La specializzazione cristologica del cardellino, nell’ambito dell’apparato simbolico, va ben più in là, fino a prefigurare la corona di spine che provocherà dolorose ferite al Messia. Il nome latino del piccolo volatile, carduelis, – che trae origine dall’abitudine di cibarsi di semi di cardo – suscita infatti l’immagine delle spine e dei rivoli d’un rosso violento che solcheranno la fronte del condannato a morte. Nel quadro di Luini la posizione del volatile, il cui becco è rivolto nella stessa direzione dello sguardo del Bambino, instaura, tra i due, lo stretto parallelismo della metafora.
Uva: Ultima Cena e sangue di Gesù
Di semplicissima decodificazione, giacché la correlazione tra l’uva, il vino e il sangue è centrale nella celebrazione della Messa – e permane, peraltro dichiaratamente, nella trascrizione evangelica delle parole di Cristo stesso – è la presenza del grappolo che porta nell’ambito dell’Ultima Cena. (“Questo è il mio sangue offerto in sacrificio per voi”). L’albero di fico che appare sovrastato dalla vite, segna l’avvenuta vittoria sul Peccato originale.
Il monte di Dio,
l’eternità e la religione
Eppure, la quinta paesaggistica, là in fondo s’apre immediatamente alla quarta dimensione, quella dell’eternità. Se la fonte collocata in primo piano rinvia alla rigenerazione del Battesimo e l’ampio fiume, in un rafforzamento semantico, porta a leggere la futura celebrazione del sacramento impartito da San Giovanni a Cristo, nel Giordano, le montagne, di un niveo candore, non appaiono tanto come frutto di un imprinting visivo di Luini, pittore dell’Italia del Nord, quanto, al di là dell’efficace descrizione naturalistica, come un denso, illuminante strato di significati simbolici, suscitati dai Vangeli e dalla patristica.
“Le altitudini della montagna – scriveva monsignor De La Bouillerie ne Le symbolisme de la nature (1864) – sono attributo di Dio. Altitudines montium ipsius sunt. Esse ci avvicinano al cielo (…) Il Signore dice a Mosé: ‘Guarda e comportati secondo ciò che ti è stato mostrato sulla montagna’. Va infatti ricordato che i fatti cruciali della religione avvengono sulle montagne. L’arca si ferma, dopo il diluvio, su una montagna dell’Armenia. Dio detta le sue leggi a Mosé sul monte Sinai. Il profeta Elia deve salire l’Horeb per sentire la voce di Dio. Dio stabilisce il trono di David sulle montagne di Sion. Non appena Maria ha concepito il suo divino Figlio, eleva lo sguardo verso le montagne. Quando Gesù Cristo imbocca la via dell’apostolato è dalla cima di una montagna che parla per la prima volta folla”. Ma i monti candidi dipinti da Luini nella quinta più lontana alludono, con solennità, all’eterno e alle parole dei santi, alla divina purezza e all’episodio evangelico della Trasfigurazione.
“L’evangelista (Matteo) – aggiunge De la Bouillerie – quando parla della Trasfigurazione di Gesù Cristo sul monte Tabor riferisce che gli abiti del Salvatore apparivano bianchi come la neve. Sant’Agostino ci ha poi insegnato che i vestiti di Cristo, candidi come la neve, altro non sono che la Chiesa, della quale, nei santi Cantici, è detto che è bella e senza macchia alcuna”.
Per l’uomo del Cinquecento, il monte innevato doveva costituire un’autentica palestra simbologica, ricchissima di rinvii. La decodificazione delle diverse allegorie costituiva un esercizio di approfondimento o di recupero mnemonico dei brani biblici, che doveva assumere la valenza di un percorso di preghiera.
E’ sotto questo profilo che il nostro sguardo, cresciuto, a livello di suggestione iniziale, sotto i dardi sensuali e superficiali dell’arte borghese di stampo impressionista – e passato attraverso le stagioni del realismo – deve ricollocarsi in un articolato sistema di segni, che è quello dell’espressione artistica delle origini.
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