di Lionello Puppi
[N]ella meticolosa ricostruzione delle tormentate vicende che contrassegnarono la storia secolare della cappella degli Ovetari nella padovana chiesa degli Eremitani – allegata allo splendido volume illustrante la mirabolante restituzione virtuale degli affreschi mantegneschi spappolati dal bombardamento dissennato dell’11 marzo 1944 (Andrea Mantegna e i Maestri della cappella Ovetari, a cura di A. de Nicolò Salmazo, A. M. Spiazzi, D. Toniolo, Skira) -, spicca, tuttavia, un’assenza.
Voglio dire che uno iato s’avverte tra il dicembre 1793, allorché Giovanni De Lazara lamentava lo stato di degrado in cui sopravvivevano quelle “preciose ed insigni Pitture”, e l’agosto 1818, quando la stessa preoccupazione veniva ribadita a livello di governo: un vuoto, dunque, di fatti e di cose, come se, nel corso dei cinque lustri intercorrenti, nulla di notabile fosse accaduto. Che potrebbe, magari, esser stato: o potrebbe, viceversa, trattarsi di obiettiva mancanza di informazioni, ma là dove pareva ovvio doverne esaurire la ricerca, mentre, da un’altra parte (e neppur così peregrina), stavano in attesa d’esser scovate.
Intendiamoci. Padova, dalla caduta della Repubblica serenissima (1797) alla cessione all’Austria, dal ritorno del dominio napoleonico (1803) all’incorporamento nel suo regno d’Italia (1806) e, infine, alla definitiva annessione all’Austria (7 novembre 1813), patisce angherie d’ogni genere e, per un buon tratto, in un contesto di tempestosi sommovimenti bellici, assume il ruolo – giusta un’azzeccatissima definizione – di “città guarnigione”, e son i grandi monasteri medioevali, con le maestose chiese annesse, a patir le sofferenze più strazianti.
Sappiamo, per ciò che qui interessa, che il vasto complesso edilizio degli Eremitani fu, dai Francesi, sgomberato dai monaci (che saran riparati a Verona) e consegnato al Demanio militare che ne adibirà gli spazi a ospedale, con conseguenze di ulteriore degrado, se non di scempio, per il patrimonio pittorico e plastico della chiesa e dei chiostri. Se ignoriamo l’uso che possa esser stato fatto della cappella Ovetari, abbiam tuttavia qualche ragione indiziaria per ritenere che abbia goduto di un certo rispetto, proprio in virtù della fama degli affreschi mantegneschi che, sul finir del Settecento, aveva toccato un momento di grande risonanza europea. E non v’è dubbio che ad essa spetti l’iniziativa – a mia scienza sin qua mai rilevata – che ci accingiamo a render nota su tre documenti conservati nel fondo Autografi dell’Archivio di Stato di Milano (cart. 83, fasc. 26), ma che potrà venir più compiutamente restituita allorché sarà stato identificato, ed esplorato, il fondo (o i fondi) da cui quelle carte son state rimosse e ricollocate nella serie anomala in cui oggi si trovano.
Ne deduciamo, comunque, che, tra 1806 e 1807, la destinazione al “Militare” di convento e chiesa doveva esser stata decretata, con l’eccezione, però, precisamente della cappella Ovetari (che vien sempre designata come “cappella delle pitture del Mantegna”) e del mausoleo eretto da Bartolomeo Ammannati tra il marzo del 1545 e l’aprile del 1546 a gloria eterna del giureconsulto, e nume della cultura padovana del Cinquecento, Marco Mantova Benavides, sulla parte sinistra dell’aula della chiesa: e che, pertanto, sarebbe stato smontato e ricomposto sul muro dirimpetto
– nell’anticappella – all’altare del sacrario degli Ovetari. Incaricato dell’impresa è Daniele Danieletti, professore di architettura civile e militare presso l’Ateneo patavino, una figura di grande interesse, sia per attività progettuale che per impegno teorico e didattico (Padova, 1756-1822) nella Padova tra Rivoluzione e Restaurazione, non ancora organicamente studiata. E’, in effetti, il Danieletti che, l’8 aprile 1808, “ordinato(gli) di far un fabbisogni delle spese che s’incontraranno a segregare dalla Chiesa degli Eremitani ceduta al Militare (…) a norma del decreto di Sua Altezza Reale Imperiale (…) la Capella dove sono le celebri pitture del Mantegna, hasportando anche in questa il sepolcro del professor Mantova Benavide (sic!), che esiste in Chiesa”, stende il preventivo richiesto indirizzandolo “al Signor Direttore del Demanio”.
Del decreto del Viceré Eugenio di Beauharnais, e delle sue motivazioni, non abbiamo per adesso trovato il testo, né identificato il “Direttore” destinatario della “memoria”. Questa, comunque, prevedeva di “otturar un volto grande, che ora unisce alla Chiesa la Capella delle pitture del Mantegna, largo piedi 18, alto piedi 45, con lo fondamento stabilito, e biancato di dentro, grosso un quadretto, forma il tutto passi n° 32 1/2”: ciò che, al costo di “lire 16 al passo compreso le fondamenta”, significava 520 lire. Inoltre, “per il trasporto del Mausoleo del Professor Mantova Benavide, rimettendolo nella facciata dirimpetto alla Capella Mantegna”, sarebbero occorse “non (…) meno di 700 lire”. Ma non solo.
“Per far la Porta dietro all’Altare isolato alla (parola non chiara), che esiste nella Capella Mantegna, ed otturar altri due fori di Porte e balconi, e farvi le imposte, con corrispondente fondamento, queste fatture saranno equilibrate dalli materiali, che esiste in due sporti in fuori, che si dovranno demolire nel giardino nel quale esiste il sepolcro di Madonna Diedé, e si potrà servirsi anche delle erte della Porta che dal giardino suddetto annette alla sacrestia”.
Laddove, in mancanza di un riscontro grafico, il progetto è di interpretazione abbastanza difficile; e preferiamo sospenderne il tentativo che, per esser plausibile e serio, postula una revisione mirata degli atti relativi agli interventi condotti nella cappella e nell’atrio tra 1839 e 1841, soprattutto per quel che concerne il riferimento al “giardino” – per il quale un passaggio, che avevamo omesso, del preventivo prevedeva la recinzione “di due muri esterni, in latittudine di piedi 55 ad angolo retto, all’altezza di piedi 12” -, alla “Porta dietro l’Altare” (ovviamente, questo, nella posizione arretrata che, contro l’assennato parere del Moschetti, sarà portata in avanti nel 1931-1932; ma, quella, al di sotto dell’affresco con l’Assunta?), al riconoscimento dei “due fori” da “otturare”.
Sta di fatto, che il piano predisposto dal Danieletti non dovette riscuotere l’approvazione dell’Autorità competente, piuttosto per l’entità della spesa, in verità, che per il merito dei modi d’intervento. Pertanto, il 18 luglio 1808, il Nostro presenta – ma, questa volta, con nostra sorpresa, “al Signor Reggente dell’Università di Padova” – un preventivo semplificato. Non troviam più accento, infatti, al costoso (“lire 640”) recinto murario del “giardino” e, se la spesa “per il trasporto del Mausoleo del Professor Mantova Benavides” vien abbassata a 650 lire, all’interno della “Cappella Mantegna” si prevede solo di “far una Porta lateralmente sotto ad un balcone (…), ed altra finta dirimpetto, servendosi delli stipiti delle due Porte, che ammettono alla Sacrestia, con imposta di legno e corrispondente ferramenta”, al prezzo contenuto di lire 80. Inalterati, invece, restano le previsioni dell’otturazione del “volto grande, che ora unisce alla Chiesa la Capella delle pitture del Mantegna”, ed i suoi costi (520 lire). S’impone, così e infine, la domanda cruciale se quest’ultima previsione – che reca in calce l’“approvo questo nuovo progetto” di Alessandro Barca “Rettore reggente” – abbia avuto esecuzione. Il terzo documento in cui ci siamo imbattuti può, forse, fornire una risposta non implausibile.
Si tratta di una “memoria” priva di data e di nome d’autore, ma che, in quanto vale una sorta di petizione ad insediar nella chiesa già degli Eremitani una parrocchia “matrice”, implicitamente scongiurandone la consegna al “Militare”, può agevolmente datarsi all’indomani dell’emanazione del decreto di riduzione delle parrocchie di Padova da trentadue a dodici, che ci mantiene entro l’anno 1808. Orbene, l’innominato redattore della “memoria” si preoccupa, anzitutto, di sottolineare che “la Chiesa degli Eremitani è una delle più vaste di Padova, ed è poi quella forse sola in cui si ammirino li più bei monumenti dell’antichità. Imperocché, oltre la famosa Cappella del Mantegna, il superbo mausoleo del Mantova, li due apostoli Pietro e Paolo dipinti a fresco da Stefano dell’Arzere, che sono di qua e di là dell’altar maggiore, si veggino nel Coro li primi rudimenti della pittura a colori, e vi si conservino alcuni quadri dipinti sul muro di lavoro ammirabile per que’ tempi” (ed è eloquente testimonianza, codesta attenzione ai capolavori trecenteschi di Altichiero, di Giusto de’ Menabuoi, di Guariento, d’una crescente sensibilità per la pittura dei “primitivi”).
Constata, quindi, il nostro anonimo, che, per centralità, oltre che per spaziosità, la chiesa, “contornata da quattro piccolissime Parrocchie, non distanti l’una dall’altra più di tre o quattrocento passi”, merita appieno di rimpiazzarle come “matrice”. A tal fine, soggiunge, cioè a riaprir la chiesa “creandola Parrocchia”, convergono, oltre che il vescovo, gli stessi prefetto, podestà e direttore del Demanio; e “la nomina o concentrazione di questo Parocchio (sic!) è da lungo tempo a Milano presso il Ministero del Culto”. E, mentre “li Parocchiani, com’è costume, manteranno la fabbrica”, e “al più altro per ora, e presto si rende necessario che ristaurare il volto della picciola Capella del Coro, la quale sta per cadere”, resta evidente che, “aprendosi la detta chiesa fatta Parocchia, non occorre alcun trasporto di Mausoleo, né spesa per innalzarlo, restando esposto nel suo luogo antico alla vista di tutti”.
Sulla “picciola Capella” resta il quesito se d’allusione si tratti a quella degli Ovetari, laddove il silenzio sull’inutilità anche del muro d’otturazione del “volto grande, che ora unisce alla Chiesa la Capella delle pitture del Mantegna” – e che avrebbe dovuto ridurla ad organismo spaziale autonomo -, può indurre al sospetto che, nel frattempo, possa esser stato innalzato, identificandosi in quello rimosso nel 1925.