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In principio era il NERO; un buio assoluto prima del fatidico big-bang, come ipotizzato dalle odierne teorie scientifiche; in seguito una condizione relativa legata alla “privatio lucis”, al nero fenomenico di ciò che rimane in ombra. E proprio perché di oscurità si può parlare solo in relazione alla luce e alla mancanza di essa, nelle tenebre delle profondità abissali, spesso raggiunte da rarefatti raggi solari, qualcosa come cinquecentosettantamila anni fa dei piccoli animali predatori giunti a noi sotto forma di fossili sentirono di dover sviluppare occhi per vedere. Si parla, dunque, in un imprecisato quanto remoto punto della storia e del Tempo, di “creazione dal nero”. La definizione è di Manlio Brusatin, autore di una interessante sintesi sull’uso del colore nero nella storia e, soprattutto, nell’arte.
Partendo dal presupposto che esiste una notevole quantità di neri che si sono utilizzati nel corso della civiltà dell’uomo, si arrivano a riconoscere sfumature e a ritrovare implicazioni capaci di apportare nel mondo della storia dell’arte qualche prezioso contributo. Che dire, per esempio, del nerofumo, o nero di lampada, quella polvere un po’ grassa e raccoglibile col coltellino che si depone su una lamina d’argento o su un disco di porcellana messo a una certa distanza dallo stoppino di una lampada ad olio e che produce effetti bluastri usati in ogni pittura a fresco? O del nero di vite, così chiamato perché formatosi dalla combustione di sarmenti di questa pianta una volta chiusi in una scatola di bronzo e in grado di creare un effetto argenteo-azzurro stinto, tra i più amati dai pittori ad olio, tanto che Jan Vermeer lo impiegò esclusivamente negli effetti giallo-neri dell’abito della donna che legge (nel dipinto Lettera, alla Gemalde Galerie di Dresda), e Arnold Böcklin lo usò spesso accostandolo all’azzurro oltremare della pietra “concentrando il nero sopra una enigmatica figura in nero destinata ad attendere eternamente sulla riva” nel quadro Villa sul mare? Questi colori, di derivazione vegetale, contengono qualità fredde e bluastre “che lo ricongiungono all’aria pur partendo dalla consumazione del legno di vite e dai noccioli della frutta”. Esistono poi varietà di nero animale, che ha invece in sé l’origine dal nero-rosso-giallo della terra. Come, per esempio, il nero d’avorio o nero elefantino, “raccolto dalle ceneri delle zanne d’elefante, i cui frammenti devono bruciare e consumarsi entro vasi metallici ermeticamente chiusi”. Si tratta, quest’ultimo, di un nero nobile e antico per la pittura ad olio, in cui si impiegavano i frammenti di zanne di pachiderma che non servivano ai fabbricanti di pettini e di cornetti. Una qualche liturgia del nero non può poi ignorare il nero di mummia, un colore che ha in sé qualcosa di spirituale.
Si tratta di un nero terragno, quasi terra d’ombra, ricavato dalla triturazione e dalla riduzione in polvere di mummie egiziane, prelevate dalle rive del Nilo e contrabbandate in gran quantità nell’occidente. Già dall’epoca delle crociate si commerciava in mummie, ma soltanto tra il XVII e il XVIII secolo se ne segnala gran commercio in tutta Europa: nelle farmacie si preparava questa polvere ad un altissimo prezzo vendendola come rara medicina. Ciò durò fino alla fine del Settecento, quando in tutte le città del vecchio continente la polvere di mummia veniva prescritta per curare molte malattie dello spirito e dell’anima. Alcuni pittori, come Tintoretto, impegnando le loro fortune, mescolavano e macinavano più sottilmente questa polvere, “più preziosa dell’oro e dei lapislazzuli, per dipingere le loro ultime opere e fare delle opere e di loro stessi un’arte e un nome eterni”. Dal XVIII secolo si iniziò a rispettare le mummie, indirizzandosi verso un altro modo di prelevare “il colore delle tenebre”: ecco il nero di seppia, un succo prelevato dal mollusco marino con un metodo scrupoloso e attento. Alla fine dell’inverno, verso la metà del mese di marzo, le seppie cercano strette lagune per accoppiarsi, divenendo facili prede una volta che vogliano riconquistare il mare aperto: è allora che i pescatori ne raccolgono in grande quantità tuffando le mani o utilizzando delle semplici reticelle. Soggetto a manipolazioni ed essiccazioni, il nero o bruno di seppia è un inchiostro direttamente solubile in ammoniaca, in grado di trasformarsi in una materia succosa e scorrevole adatta ad intingervi tanto il pennello di martora quanto la penna d’oca.
Né va dimenticato qui il nero di stampa. Il nero di Francoforte o nero di Germania è ciò che, da quel fatidico 1455, dà sostanza ad ogni parola; il medium fondamentale per dare vita ai caratteri mobili di Johann Gutenberg, dalle indispensabili caratteristiche di imprimere e asciugarsi in fretta per lasciarsi leggere per molti anni, prima di autodistruggersi nella carta o distruggerla con il proprio acido. E’ una sostanza molto impura ma essenziale, il nero di stampa, “la fogna di tutti i neri”, come lo definisce Brusatin, “che in loro hanno, come nell’abito, un principio di rarità sporca e una aristocrazia di oscure origini”. In esso sono gettati in gran quantità nerofumo e fuliggine, tralci e fecce di vino, noccioli bruciati di mandorle e pesche, festuche e coni di luppolo, scaglie affumicate di osso e limature d’avorio. Abilmente maneggiato con un tampone per distribuirlo con accuratezza sulle sporgenze dei caratteri mobili, per la sua doppia natura, vegetale ed animale, l’inchiostro poteva così apparire mezzo caldo e mezzo freddo, con dominanti, cioè, marrone-rossastre (che abbiamo visto essere peculiarità del colore derivato da materia animale) o argenteo-azzurre (tipiche di quello di derivazione vegetale). Se dunque nella stampa c’era gran cura nelle varie fasi materiali dell’opera – fondamentale era l’adagiare e togliere il foglio con gesti rapidi e precisi -, l’inchiostro rimaneva, anche per libri stimatissimi, un particolare ambiguo, una sostanza mista e senza forma. Eppure, è anche grazie a questa imperfezione, che all’inizio dava adito agli umanisti di considerare volgare il volume a stampa rispetto al manoscritto, che ogni libro diventa un’opera prima e ultima. Così che ai giorni nostri, nell’era dei computer, dove la tecnologia ha trovato il modo di rendere virtuali pagine e inchiostro, il nero della scrittura si fa arte concreta, come nelle creazioni di Emilio Isgrò o nei Collages di Jirí Kolár, in cui si polverizzano tutte le parole di un libro oppure si toglie in blocco il testo, facendone un tomo, scatolare e vuoto, per nascondere qualche singolo oggetto prezioso.
La ricetta segreta del nero di seppia Doc
Così nel Settecento Rosalba Carriera annotava il metodo per “contraffare il color dell’inchiostro chinese”: “Si prende di quell’umore, o liquore nero della seppia, si mette in una borsa di tela non troppo fissa per colarlo, e si spreme con due bastoncini in un catino di terra che possa stare sopra il fuoco. Nella borsa resteranno le fiorette crasse che si getteranno; e di poi per la borsa si fa passare un poco d’acqua calda, acciò cada nel catino il nero che vi si era attaccato. Fatto ciò si pone il catino sopra un treppiedi a fuoco lento per far svaporare umore acquoso e crasso che vi sia dentro. Non si ha da lasciar bollire perché bruciarebbe. Tenuto così un poco di tempo sopra il fuoco soave quando si vedrà che sfuma poco, o niente, allora vi si pone dentro polvere di gomma arabica a discrezione, e si mescolerà bene con una spattola finché si compia già l’opera sciolta ed incorporata a perfettione la gomma e la materia resti di tal consistenza che si possi ridurre a bastoncini che imitino quelli della China, e si faccino seccare al sole. Per levar via la puzza dal nero si può mettere qualche cosa d’odorifero nella pasta, o dare una pennellata di acqua odorifera ai bastoncini quando sono formati”.
Il nero nell'arte, storia gloriosa di un non-colore a partire dalla polvere di mummia
Il vecchio Tintoretto impreziosiva le tele con nero di mummia. Vermeer e Böcklin preferivano l’effetto argenteo dei neri vegetali. Il nero di stampa? Il più impuro di tutti. Un saggio di Manlio Brusatin racconta l’affascinante storia del colore dell’ombra