I suoi intensi occhi scuri, la carnagione olivastra, il corpo flessuoso che muoveva con estrema eleganza, i modi raffinati, la bellezza sensuale avrebbero fatto breccia nel cuore di Parigi. Lei, Margaretha Geertruida Zelle (Leeuwarden, 7 agosto 1876 – Vincennes, 15 ottobre 1917), di nascita olandese, figlia di un commerciante di cappelli, fingeva d’essere una principessa orientale. E il mondo, quello della Bélle Epoque, che viveva d’accese fantasie, non aveva nessuna intenzione di controllare documenti, avviare indagini per verificare l’identità perchè in quella Parigi euforica si viveva grazie a una convenzione fiabesca: ognuno avrebbe assunto un’identità confacente alla personalità, potendo mutare la proprie origini e ridefinendosi, a livelli socialmente più alti, nel nuovo contesto. Parigi così prostrò ai suoi piedi.
Ora dobbiamo chiederci il motivo per il quale la danza e la finale nudità della ballerina provocassero un tale inebriante stordimento nel pubblico, a partire dal 1905 e per l’intero decennio che avrebbe portato alla prima guerra mondiale. Le belle donne, che danzavano o esponevano se stesse nei postriboli di lusso, non mancavano certo. Ciò che colpiva, in Mata Hari, era la levità, il distacco legato a uno status principesco e, al tempo stesso la contraddizione di quella naturalezza, che pareva davvero tutta esotica, nell’offrire visione completa del proprio corpo, delle forme ben plasmate lungo il metro e settanta di altezza.
Era leggiadra, bella, intensa; il suo sguardo non presentava alcuna torbidezza, ma si rivelava puro, virginale, nel brillio dello sguardo. La sua nudità sembrava fondersi con i principi cardine dell’universo; e pareva essere nata davvero lontano, in quella culla del mondo, cioè l’Oriente estremo dominato dalla cultura indiana, al quale con tanta intensità guardavano poeti, artisti e intellettuali dell’epoca. Mata Hari compì una rivoluzione di costume poichè dimostrava che l’apparire senza veli, in quel modo, non era nulla di estremamente peccaminoso; ma semmai un peccato veniale; indicava la liceità sociale di una dolce spudoratezza che avrebbe potuto essere assunta anche dalle donne delle classi superiori.
Dopo aver utilizzato per un breve periodo il cognome del marito, Mac Leod, assunse il nome di Mata Hari, che in malese significa luce del mattino, scelto per lei da un collezionista di oggetti orientali, Questa donna era divenuta amante di uomini ricchissimi che l’avevano mantenuta in ogni lusso, ma non come una cocotte, quanto come un personaggio dell’alta aristocrazia.
Per renderci conto di quale fosse stato il percorso che aveva consentito alla ballerina trentenne di diventare, in breve, una danzatrice di rinomanza mondiale, apriamo la finestra del tempo che sta alle nostre spalle. E subito ci appare una strada linda ed elegante del centro di Leeuwarden, dov’era nata il 7 agosto 1876. Il palazzo di famiglia. Margaretha Geertruida Zelle era cresciuta in una famiglia borghese, con qualche pretesa aristocratica. Per questo spettatori e ammiratori parigini avrebbero notato in lei i segni di un’educazione superiore, sicuramente non imparaticcia.
Da bambina e ragazzina aveva frequentato buone scuole, prima dell’improvviso tracollo economico dell’impresa commerciale paterna. Nel 1889 papà aveva dovuto cedere il negozio, la fattoria e il mulino; in breve tempo i genitori si erano separati e la mamma era morta. Il mondo di Margaretha era stato così, in breve, dolorosamente sconvolto.
Si era trasferita a Leida, a casa del padrino, che l’aveva iscritta a una scuola per maestre d’asilo, ma era stata pesantemente molestata dal direttore dell’istituto stesso, forse mostrando anche una certa corresponsione alle sue profferte amorose, sicchè s’era deciso di mandarla a l’Aja, da uno zio.
Nel 1895, anche per uscire da una situazione stagnante, aveva deciso di sposarsi. Osservando il giornale aveva notato l’annuncio di un ufficiale olandese che chiedeva di incontrare una giovane donna a fini matrimoniali. Il capitano era il quarantenne Rudolph Mac Leod (1856-1928), che viveva ad Amsterdam ed era in congedo temporaneo dal servizio militare, svolto nelle colonie indonesiane, a causa del diabete e di affezioni reumatiche.
La ventenne, dopo averlo conosciuto, non aveva esitato, come risulta dalla corrispondenza, ad offrire, prima del matrimonio, la propria prova d’amore. Le nozze sarebbero state celebrate nel 1896 e, l’anno successivo, prima della partenza per l’Oriente, sarebbe nato il primogenito Norman John. Il viaggio per le “Indie” fu intrapreso a partire dal mese di maggio del 1897, quando il bambino aveva quattro mesi. Il soggiorno sarebbe stato diviso tra Sumatra e Giava, per circa un quinquennio.
Nella prima isola, nel maggio 1898, aveva partorito una bambina, Jeanne Louise, chiamata Non, in famiglia, un soprannome che deriva dal malese Nonah, cioè “piccola”. Ad entrambi i bambini, nel 1899, fu somministrato un medicinale sovra-dosato o un veleno da una persona della servitù. Jeanne Louise si sarebbe salvata, mentre il fratello, che aveva due anni, sarebbe morto. Fu un dolore terribile per Margaretha e per il marito. Un dolore che contribuì a renderli sempre più distanti tra loro, anche perchè la coppia aveva avuto molti dissapori a causa della gelosia di lui e del comportamento molto aperto di lei, nei confronti degli ufficiali. Per staccarsi dal luogo della morte del bambino, i coniugi Mac Leod si trasferirono a Giava, dove il marito fu nominato maggiore e comandante del distaccamento.
Nel 1900, il militare aveva richiesto il pensionamento e nel 1902 la coppia, con Non, che aveva tre anni, tornò in Olanda. Lì i litigi si intensificarono. Lui se ne andò. Margaretha ottenne l’affidamento della figlia; i Mac Leod tentarono poi un riavvicinamento che fallì. E questa volta i giudici affidarono la bambina al padre. Margaretha rimase sola. L’anno successivo, non avendo alcun orizzonte davanti a sè, tentò una prima sortita a Parigi, dalla quale non ottenne risultati concreti. Per mantenersi fece la modella per pittori, forse si prostituì o comunque venne mantenuta. Rientrò in Olanda e ripartìm successivamente per la capitale francese con l’idea di esibirsi nella danza dei sette veli.
Presentandosi come figlia di un bramino indiano, danzava davanti a una statua di quei lontani culti, inscenando il suo leggiadro volo d’amore carnale in direzione del dio. E, recuperando alla memoria le movenze delicate delle danzatrici orientali – che aveva visto più volte durante il soggiorno a Giava e Sumatra – s’avvicinava al feticcio, sfogliando da sé velo dopo velo e restando, spesso, completamente nuda davanti ad esso e agli spettatori annichiliti.
Lo scoppio del primo conflitto mondiale avrebbe mutato gli orizzonti, le possibilità di lavoro e, soprattutto, le modalità di interrelazione. Fu proprio a causa di questi mutamenti non compresi che Mata Hari rimase vittima in parte della propria leggerezza, in parte di una macchina politico-mediatica che voleva individuare un colpevole di gran nome sul quale scaricare le colpe delle difficoltà militari francesi del 1917.
A ridosso dell’inizio della guerra, Margaretha, durante una tournée in Germania, era stata vista intrattenersi con il capo della Polizia di quel Paese. Ciò aveva insospettito i francesi, che presero a guardarla come una possibile spia. Margaretha era tornata in Olanda e qui era stata in effetti contattata dall’ambasciatore tedesco che le aveva promesso cifre consistenti per un’azione di intelligence che Mata Hari avrebbe dovuto svolgere a Parigi, contando sulla sua fama e sulla frequentazione del bel mondo. I tedeschi volevano ricevere informazioni militari, ma soprattutto conoscere dettagli sulle produzioni di materiali bellici, informazioni che la bella signora avrebbe potuto raccogliere tra funzionari e politici della città.
Mata Hari si comportò con leggerezza, con tedeschi e con i francesi. Cercava denaro e protezioni perchè si era follemente innamorata di Vadim, un giovanissimo ufficiale russo di stanza a Parigi. Vadim era nato nello stesso del figlio di Margaretha, avvelenato a Sumatra. Elemento, quello della coincidenza dell’età, che avrebbe contribuito a rendere questo amore, da parte di Mata Hari, una passione struggente e travolgente, piena di ansia, di dolore e di progetti. La danzatrice sperava di sposare il giovanissimo ufficiale russo (con lei nella foto, qui sotto) ed era in cerca del denaro che avrebbe consentito ad entrambi di coronare il progetto.
Margaretha entrò in contatto anche con il capo dei servizi segreti francesi, proprio a causa del ferimento di Vadim, sul fronte. Il giovane era stato ricoverato in una zona militare alla quale non era permesso l’accesso ai civili. Mata Hari era molto addolorata e preoccupata. Voleva assolutamente incontrare il tenente per infondergli forza e dargli il segno del grande amore che provava per lui. Ma per accedere al campo erano necessari permessi superiori, anche perchè il luogo in cui Vadim era ricoverato non era distante da un aeroporto militare al quale i tedeschi erano molto interessati e sul quale avevano chiesto informazioni alla danzatrice-spia.
Così la donna fu messa in contatto, da un suo ex amante, con il responsabile dei servizi segreti. Costui. dopo aver parlato di Vadim. chiese a Mata Hari di svolgere attività di spionaggio e di controinformazione a favore della Francia. La danzatrice acconsentì per ottenere il permesso di visita a Vadim e perchè, forse, sperava di trarre vantaggi dai due servizi segreti contrapposti. Intanto ricevette il permesso di raggiungere il suo giovane amore.
A questo punto i nemici, dalle due diverse sponde, mischiano le carte. L’impressione è che i tedeschi, non avendo ricevuto informazioni importanti da Mata Hari, avessero deciso di sacrificarla per cercare di ingannare i francesi attraverso il ripristino di un linguaggio cifrato abbandonato. La stazione di intercettazione della tour Eiffel registrò messaggi trasmessi dai tedeschi, con quel vecchio linguaggio, in cui si parlava della spia H21, vecchio nome in codice di Margaretha, conosciuto anche dai francesi. Perchè ripristinare il vecchio linguaggio? Per fornire un’informazione giusta – che Mata Hari era una spia – e tentare di trasmettere, successivamente, informazioni errate al nemico, su movimenti di truppe e obiettivi strategici.
Mata Hari venne arrestata la mattina del 13 febbraio 1917 nella camera d’albergo, all’Hotel Elysée Palace e rinchiusa nel carcere di Saint-Lazare. Vadim ricevette il consiglio di abbandonarla per evitare conseguenze gravi. Mata Hari resto drammaticamente sola. Non volle coinvolgere, come testimone a discarico, Vadim. Il suo avvocato dopo la sentenza di condanna a morte presentò appello e domanda di grazia, che non fu accordata.
La donna fu svegliata all’improvviso nel carcere, la mattina del 15 ottobre, poi condotta al castello di Vincennes. Era accompagnata da una suora. Elegantissima si presentò al plotone d’esecuzione, dopo aver scritto tre lettere, che non sarebbero state recapitate: una al giovane amante, una alla figlia, l’altra all’ambasciatore di Olanda. Rifiutò di essere bendata e guardò gli uomini davanti a sè.
Partì la raffica. Solo tre proiettili la colpirono perchè gli altri furono scaricati lateralmente, forse per evitare lo scempio del suo corpo. La salma non fu reclamata da nessuno. Così venne dissezionata nell’istituto medico legale di Parigi. La testa fu conservata, ma venne poi trafugata. Le altre spoglie mortali di Mata Hari furono sepolte in una fossa comune.